American Music Club “California” (1988)

American Music Club “California” (1988)

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American Music Club
“California”, 1988 (Frontier records)
Songwriter, slowcore, folk-rock

di Francesco Nunziata

Sospetto un’inquietudine profondissima nel giovane Mark Eitzel. Un’inquietudine sotterranea, esplosa senza mezzi termini poco prima del 1988, quando, prima di registrare “California”, terzo album dei “suoi” American Music Club, si trasferisce in una delle zone più squallide di San Francisco, popolata da ubriaconi, tossici e personaggi solitari. Un luogo assolutamente in linea con quanto si agitava nel cuore del cantante/chitarrista originario di Walnut Creek, a una mezz’ora di macchina da Oakland.
In quegli stessi giorni Mark inizia ad ascoltare molto cantautorato “depresso”, concentrandosi soprattutto sull’opera di Nick Drake, artista che lo avrebbe ossessionato a lungo. Una lenta, inesausta perdizione che sperava, un giorno, di poter riconvertire in redenzione. Ma questo Eitzel ventottenne è un equilibrista alle prese con i suoi tormenti e la sua solitudine. Cammina svagato e disilluso lungo una corda sospesa sul baratro. Alla sua destra, l’oceano che schiuma illusione; alla sua sinistra, le montagne che chiudono la “terra promessa” del Sogno Americano in un limbo di cartilagini esistenziali ferocissime. Tenebrosa terra, solo per le cartoline inondata di soli accecanti e bellezze di plastica…
Mark Eitzel è essenzialmente un poeta, uno dei più grandi del rock americano. I suoi versi costituiscono un diario di viaggio carico di simboli e rivelazioni, di alter-ego disperati che non nascondono mai la testa sotto le rovine della propria vita, sempre alla ricerca di una parola con cui convertire i “mostri” in animali domestici. Accudire il dolore, conservarlo come un bene prezioso, perché solo in esso risiede la radice della purezza. Così, tutto “California” è un luogo dell’anima sempre conteso tra la radicale insensatezza dell’attimo e il mistero scintillante della nostalgia. In mezzo, lo stupore che serra l’uomo nell’angolo più nascosto della sua anima. Superato ma non dimenticato il folk-rock dei primi due lavori (“Restless Stranger” ed “Engine”), gli American Music Club (la cui formazione era completata da Tom Mallon alla batteria, Dan Pearson al basso e da Vudi alla chitarra) danno dunque vita ad un sound che mescola anche radici country, accenti psichedelici, incubi slowcore, cupe introspezioni “pop” e finanche qualche impennata punk-blues.
“Ricordo: pioveva spesso, era sempre buio… perché registravamo sempre di notte, dato che durante il giorno lavoravamo. Percorrevamo spesso la Interstate Freeway 5 per andare a Los Angeles, dove suonavamo in club in cui non sempre c’era molta gente. Bevevamo molto alcool, per avere il coraggio di salire sul palco. Ricordo il caos… Una volta Mark perse la voce e questo causò non pochi problemi. Andavamo in giro con un furgone. A volte ci svegliamo alle quattro di mattina e ci accorgevamo che Mark stava guidando lungo paesaggi verde-scuro come una foglia di quercia in giugno. Alla fine dei concerti, nel backstage sembrava di stare ad una riunione con degli amici pieni di problemi. Ma era tutto molto emozionante”
(Daniel Jons Pearson, via e-mail, 7 febbraio 2012)

Stanze privatissime, quelle di “California”. Letti sfatti, vetri appannati su cui qualcuno ha tracciato parole nel tentativo di resistere alla fiumana del tempo, donne che non hanno atteso l’alba per salutarti, lasciando al tuo fianco soltanto la loro spossata silhouette, estranei che ascoltano le tue chiacchiere alticce, ragazze dal volto sconsolato, paesaggi obliqui e tenebrosi, squarci di gioia stropicciata, ricordi come ferite infette e strade in cui il cielo si è del tutto smarrito. E in mezzo a tutto questo l’anti-eroe di Walnut Creek, un ragazzo timido che nella musica rintracciò qualche spiraglio di luce, uno spuntone di roccia per non colare a picco. Uno spuntone che, probabilmente, si materializzò improvviso sotto forma di cinque accordi, gli stessi che all’inizio del suo disco più grande un giorno sarebbero scivolati direttamente dentro le radiose praterie country-pop di “Firefly”. Ma erano praterie che nascondevano l’inferno sulla terra.
Dedicata alla madre morta di cancro, “Firefly” è quintessenza Mark Eitzel anno domini 1988. Parole che corrodono il cuore, mentre il banjo gracchia sornione e la steel-guitar (Bruce Kaphan) taglia da parte a parte l’orizzonte, scavando nel cielo un nido per l’uomo ma non per il poeta, ancora alla ricerca di una parola che sappia trasformare la disperazione in un rivolo di ribellione, riuscendo, dunque, davvero a “prendere la vita alla gola”, per dirla con Robert Frost. La madre che non c’è più è, così, una “bella” con cui sedersi sul prato davanti casa per guardare le lucciole mentre il sole tramonta dietro le colline. Ma non vivono a lungo, le lucciole, perciò ridere di loro è un po’ come esorcizzare l’incommensurabile tragedia della morte: “C’mon beautiful we’ll go sit on the front lawn/ We’ll watch the fireflies as the sun goes down/ They don’t live too long, just a flash and then they’re gone/ We’ll laugh at them and watch the sun go down”. Ridere di loro per domandare, quindi, con dolcezza di figlio: “Tell me why you don’t sleep anymore/ Tell me what you sit up all night waiting for”. E nonostante tutto, lei ancora così bella, lei che, quando prega, inizia ogni preghiera come se fosse un bacio (“Finish the prayer that started as a kiss”), mentre Mark la guarda e sa che può dargli, al massimo, tutta la sua buona fortuna (“I’ll give you all of my good luck”). Terrificante, come solo la Bellezza sa essere, perché in equilibrio tra gioia e disperazione, tra la possibilità di un senso e l’inevitabile crollo di ogni senso. E c’è un momento, qualcosa come una ventina di secondi scarsi (tra 1’12” e 1’30”), in cui la steel-guitar davvero frantuma ogni possibile resistenza, allargando le sue scintille-lucciole dentro un deserto-abisso… Piccole, grandi sfumature. Una pugnalata improvvisa. Un’epifania dell’oscuro che ha già dentro di sé l’essenza di qualsiasi lutto.
Più aggressiva, “Somewhere” è una spirale di elettricità che rintraccia nell’alcool una strada per evadere dalla noia, un modo per andarsene in giro, da qualche parte, là dove la gente è “viva”. Il contrasto col brano precedente è piuttosto netto, con passaggi chitarristici assolutamente esaltanti, come quello compreso tra 1:30 e 2:08, dove la distorsione sincopata e le liriche (“C’mon let’s go out and really drunk tonight/ You can be miss bottomless pit of 1983/ And I can be mr. out like a light/ C’mon we got a lot to lose/ So maybe we can lose it all tonight”), sorretti da una martellante sezione ritmica, incorniciano uno dei momenti più liberatori e visionari dell’intera opera.
Qui la tematica della nostalgia è colta da una prospettiva diversa, ovvero da quella della “distanza”, essenza stessa di un sentimento così ambiguo, capace di cullare l’anima e, nello stesso tempo, di esporla ad una tormentata vertigine spazio-temporale. “Somewhere”, da qualche parte: un ipotetico non-luogo che contiene tutti i nostri eventuali punti di fuga verso un passato mitico che conserva e rimodella continuamente la nostra vita. Da questo non-luogo, da questa oasi straziante perché irraggiungibile, si dipanano, ancora più “totalizzanti” e desolate, le ferite “mute” e inconsce di “Laughinstock”, agghiacciante (se mai il termine ha avuto un senso…) cortocircuito del cuore che interroga se stesso sulla radice dell’infelicità. “Laughingstock proves that the world is made of rock/ That some grow happily on, but that’s hard for some/ You and your friend and all the rest of God’s sweet children/ Never weak, always strong/ That’s hard for some”: tutto sussurrato in penombra, la testa tra le mani, Vudi che arpeggia come un amico discreto e comprensivo, Tom distratto e pensieroso alla batteria, quasi come se i suoi occhi fossero rivolti ad un treno che trascina se stesso dentro un orizzonte fumoso. Come quando, in un crepuscolo taciturno, davanti ad una porta assediata da foglie che l’autunno ha annichilito, ci s’interroga circa il luogo in cui è andato a finire tutto il tempo che una volta semplicemente ci sfiorava il viso… Tutto l’uomo in carne ed ossa, tutto Mark Eitzel è in questo brano. Non chiedetegli il perché dell’infelicità, perché non tutto è chiaro, non può esserlo… anche se le nuvole non sono manifeste nel cielo (“Isn’t everything clear/ No clouds in the sky”). La musica si ferma, le dita schioccano per tenere intatto il contatto con l’istante che cerca di sfuggirci.

Silenzio-spleen. “That’s hard for some”…

La solitudine è un riflesso condizionato dell’infelicità. Eppure, questa solitudine non necessariamente spinge all’introversione cupa e disfattista. Può generare, infatti, attimi di assoluto trasporto emotivo e può farlo perché è proprio in un continuo susseguirsi di bagliori e tenebre che risiede la sublime intensità lirica di “California”. Eccola, dunque, la meravigliosa “Lonely” in un girotondo giubilante, con gli strumenti sorprendentemente ariosi e una voce che danza senza paura con i suoi fantasmi più spietati. I versi si susseguono vividi e calorosi, la rassegnazione trasformata in impeto lirico che stempera il buio in mille, indeterminate luccicanze: “If I have to be this lonely/ I may as well be alone”… e, allora, tanto vale tornarsene nella propria stanza e aspettare, cadendo sul letto così come la neve cade, ma senza far rumore: “So I go back to my room/ To my room by the freeway/ I fall onto my bed like snow…”. Ma Mark è un coacervo di contraddizioni e, proprio per questo, vivo. In “Pale Skinny Girl” trasforma, allora, la “wasteland” di una “ragazza pallida e magra” (che mai riuscirà a vedere la luce e nemmeno riesce a sentirne il bisogno) nella sua privatissima tortura. Dalle distanze più inaccessibili, i primi secondi giungono timidi e avvolgenti: “Pale and skinny girl lives in the middle of a mountain/ Long golden hair, someone pull her out”. Costruzione lenta e austera, come un’ascesa verticale, verso le stelle, fino all’apoteosi elettrica che giunge come un lampo abbagliante, un’apoteosi di polvere di stelle che disfa la notte, riconsegnandola, come risarcimento, ai cuori dei disperati.
Vera e propria seduta psicoanalitica in musica, “California” trasuda malinconia da tutti i pori, quasi sommerso, quasi annientato dal suo stesso peso. Anche quella risacca di cristallina introspezione che è “Blue And Grey Shirt” si trasforma, così, in una dolorosissima confessione (“I’m just a shy boy sitting in a house”), la messinscena dolceamara di un uomo stanco di riflettere la pena delle cose “stanche” (“I’m tired of being a spokesman/ For every tired thing”).
A segnare un momento di distacco da tanta afflizione, il lato B del vinile si apre con un inaspettato colpo punk-blues, “Bad Liquor”, selvaggio e ubriaco, con profluvio di armoniche su di giri e voce-megafonata, quasi una rivalsa impenitente contro la bruttura del mondo, un argine che, però, non pone rimedio al dolore, lo amplifica soltanto, riverberandolo ulteriormente nelle restanti tracce. C’è la vita, in ogni caso, non soltanto il desiderio di finire l’ennesimo drink. Così recita Mark all’inizio di “Now That You’re Defeated”: “Well, I thought there was more life than finishing a drink”.
Poi, lo strazio cupissimo di “Jenny”, un bozzetto di gelida depressione degno dei peggiori incubi di Nick Drake. Chitarra, voce, un fragilissimo mormorio di fisarmonica (Vudi) e il buio più pesto oltre cui la luna-rosa è spenta.
La solitudine di una ragazza timida ad una festa, l’ennesima stupida festa.
La voglia di andare a casa. Mark che le chiede di restare, perché la casa è un “singhiozzo inaudito”, è un non-luogo perso nella folla delle ombre.
Eppure, proprio per lui che chiede di “non andare via”, è giunto il momento di “prendere un nuovo nome” e un “nuovo volto”, perché lui non appartiene a “questo posto”. Tutta “Western Sky” ribalta, così, la plumbea implosione del brano precedente, aprendosi oltre l’orizzonte dell’attimo, perché il mondo percepito nell’attimo, il mondo che non brilla di luce propria è solo un’ombra di ciò che è stato: “The world’s a shadow of what went before/ The world gives off none of its own light”. Nella distanza si conserva l’essenza della memoria, nella distanza da coprire, paesaggi da scoprire e da riconsegnare alle parole. Poi, nuvole cariche di elettricità: il cielo mugghia come il mare prima della tempesta. Le chitarre solcano l’orizzonte con guizzi metafisici: “To the left, a beautiful California landscape/ Dead ends in the sky/ And to the right, beautiful mountains rise/ High and dry”. E il paesaggio sembra liquefarsi e con lui lo sguardo stesso. Ma è un paesaggio contro cui bisogna combattere, contro cui si schianta l’ennesima “espressione futile di amarezza”, l’ennesima “sensazione schiacciante di inutilità”, tutto bisbigliato con una sorda inquietudine, sommerso dall’inevitabile che sopraggiunge (“Highway 5”).
“California” è un disco che non riuscirete mai completamente a sviscerare, perché prima dovreste sviscerare voi stessi, prima dovreste approdare davvero al vostro “ultimo porto” e non soltanto evocarlo da lontano, come una foto sbiadita. Del resto, nemmeno Mark Eitzel riuscì a venire a patti con se stesso, perso in queste contraddizioni laceranti e vitalissime.
“Last Harbor” (ancora il fantasma della “pink moon”, ancora la solitudine, questa volta ancora più annichilente, perché vissuta nelle strade della “sua” San Francisco, durante il giorno di Natale, sotto la pioggia…) non è, dunque, il suo vero “ultimo porto”, ma solo un altro buco-nero, un altro tassello di un cammino che oggi dice di aver lasciato lì, ma solo perché rievocare significa anche “rinnovare”.
Se glielo chiedete, vi dirà di non aver niente da dire su “California”. Più o meno, vi risponderà così: “Hey – Sorry – I have nothing to say about this album – Thanks for asking!”.
Chiedete anche voi, ma non a lui. Chiedete a questo capolavoro… per tornare a guardare il mondo sussurrando un addio.

https://www.ondarock.it/pietremiliari/1988_americanmusicclub_california.htm

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