Attila e Leone

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Di come Leone I fermò sul Mincio le distruzioni di Attila

Pareri Rudi-mentali

I botta e risposta del dopo-terremoto sulle tematiche di salvaguardia del patrimonio monumentale, che negli ultimi giorni si sono alternati nella cronaca mantovana, offrono notevoli spunti di digressioni storiche.
Tutto parte dalle cosiddette “provocazioni” dell’assessore provinciale Alberto Grandi, il quale ha affermato che è meglio abbattere in fretta le chiese e campanili pericolanti, per far rinascere i centri storici e far rientrare il prima possibile nelle case i loro abitanti.
A stretto giro ha risposto Salvatore Settis, storico dell’arte e archeologo di fama mondiale, il quale ha paragonato l’assessore a un Attila che dà prova del degrado istituzionale, civile e storico del nostro paese.
Anche altre voci, insieme a quella di Settis, provano a screditare il Grandi che parla di demolizioni e distruzioni. Facendo riemergere dai secoli il famoso incontro avvenuto sul Mincio tra papa Leone Magno e Attila, durante il quale Leone convinse Attila a fermare la sua opera di distruzione e a non invadere l’Italia.
Quando, infatti, gli Unni nell’anno 452 arrivarono sul Mincio, nei pressi di Mantova, avevano già sconvolto e duramente saccheggiato Milano e Pavia, oltre che buona parte dell’Europa transalpina.
Questi guerrieri nomadi erano visti dalle popolazioni latine come una specie umana inferiore. Piccoli e dalla testa grossa, così li descrivono i cronisti, con occhi mongolici e la pelle scura, coperti da pelli di animale, che impazzano, come il diavolo, senza la sella sui loro cavalli selvaggi e provocano terrore e morte. «Voglia Iddio tener lontano dal mondo certe bestie», aveva scritto e pregato qualche anno prima san Girolamo.
Erano guidati dal loro re Attila, il condottiero più notevole di quel tempo. Era soprannominato “flagello di Dio” per la sua ferocia e si diceva che dove fosse passato lui non sarebbe più cresciuta l’erba.
Ciononostante, in quell’anno 452, papa Leone Magno andò incontro ad Attila sulle sponde del Mincio, implorando il suo ritiro. E riuscì a convincerlo: il re unno rinunciò a marciare verso Roma e tornò indietro.
Molto si è detto su questo avvenimento. Spesso con toni più di leggenda cristiana che di storia vera e propria, innalzando papa Leone come salvatore dell’Europa dalle orde barbariche e definendo questo evento come un «momento magico dell’umanità», una salvezza per il mondo intero. Tant’è che addirittura il grande pittore Raffaello, più di mille anni dopo, dipinse l’incontro tra Attila e Leone in un famosissimo affresco del Vaticano.
Ma, nei fatti, non fu certo la famosa e istruita eloquenza di Leone a fermare Attila a Mantova. Per un uomo della sua specie, a cui difficilmente un vescovo romano incuteva paura, contarono di più la mancanza di alimenti per i suoi soldati, le diverse epidemie nell’esercito, la difficoltà di avanzare con la cavalleria sul territorio montagnoso dell’Italia centrale e, non ultimo, la minaccia di un attacco dell’impero romano d’Oriente alla Pannonia, il regno degli Unni.
Attila ritornò nelle sue terre d’origine e morì all’improvviso l’anno dopo, nel 453, nel letto di nozze, in stato di ubriachezza, stremato dalla notte d’amore. Una delle più famose notti di nozze della storia e letteratura mondiale. «Una vera morte da unno, una vera morte da re», sostennero i suoi. Che, se pure erano guerrieri senza paura, possedevano quel tanto di saggezza per considerare fortunato colui che moriva nel mezzo del godimento.
L’amore dei due sposi era così noto nell’ambiente vicino al re Attila che nessuno ebbe il sospetto di un omicidio. Nella tradizione cristiana, invece, l’accusa di delitto trovò terreno fertile. Del resto, nel pio Occidente erano (e sono) in voga soltanto immagini deformate e sbagliate degli Unni.
E, forse, sono state deformate anche le parole dell’assessore Attila Grandi. Sembra abbia detto che «il terremoto può essere un’occasione per cambiare il nostro approccio con le chiese». Magari, invece, intendeva lanciare una ben più scottante provocazione, sostenendo che il terremoto potrebbe cambiare il nostro approccio con la Chiesa.
Del resto, per gestire in tempi decenti chiese e torri pericolanti basta la moderna ingegneria, che ha tutte le tecniche e le tecnologie per evitare demolizioni insulse. E pare che di ingegneri alla ricerca di lavoro ce ne siano molti.
[rudy favaro]

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