Una prima curiosità di Santa Maria del Gradaro
Pareri Rudi-mentali (13/9/09)
Chi conosce Mantova sa bene che a Santa Maria del Gradaro non ci si arriva per caso, non è un posto di passaggio. Per andarci bisogna metterci l’intenzione e la volontà. E se si trova il portone chiuso bisogna anche impegnarsi nel bussare alla porta dell’attiguo monastero, nella speranza che una delle Suore Oblate dei Poveri venga ad aprirvi e vi accompagni in chiesa.
Per chi come me si interessa di medioevo e di storia e significato delle immagini il Gradaro è un luogo molto interessante e stimolante. Per questa ragione propongo, a chi mi legge e mi ascolta, di proseguire per qualche puntata nel mettere in risalto particolarità, raffinatezze e curiosità che ritrovo nella storia, nell’architettura e nelle decorazioni di questa antica chiesa e del suo monastero.
Santa Maria del Gradaro sorge in un luogo posto ai margini della città, sulle sponde del Lago Inferiore. Questo complesso, con la sua abbondanza del mattone “faccia a vista”, dà subito una chiara spiegazione sul significato di “Gradaro”: il termine deriva da “creta”, “cretaro”. La chiesa sorge infatti in un terreno a prevalenza argillosa e sembra che in questa zona della città, nel medioevo, sorgessero le fornaci per la fabbricazione di mattoni e laterizi.
Il mattone in epoca antica era ritenuto un materiale da costruzione “povero”. Se si poteva scegliere, le chiese e i palazzi venivano costruiti in marmo o in pietra dura. Tuttavia, per certe chiese connesse a ordini monastici, nel corso del medioevo si diffuse una “moda” di costruire chiese in mattoni, le quali dovevano essere spoglie all’esterno e decorate finemente all’interno. Questa “moda” voleva paragonare la chiesa alla vita dell’uomo virtuoso, nella quale quello che conta è l’interiore, la vita spirituale, e non l’esteriore, la vita terrena e mondana.
Sulla base di questi principi estetici fu costruita la chiesa che oggi vediamo. Una chiesa in mattoni di terracotta all’esterno e rivestita di eleganti affreschi all’interno.
Anche se poco rimane oggi degli affreschi medievali al Gradaro, quello che ritroviamo sulle pareti del presbiterio è notevole. Questi affreschi, databili alla metà del 1200 sono tra le più antiche testimonianze pittoriche oggi superstiti a Mantova.
Nella mia recente visita al Gradaro, mentre mi trovavo imbambolato col naso all’insù intento ad analizzare gli affreschi, mi si è avvicinata una suora. Con molta discrezione, si sentiva in dovere di giustificarsi per l’arcaismo stilistico di questi affreschi mi disse: « Sono pitture antiche , pitture vecchie del Milleduecento… Sono pitture un po’ così, ma quella era la moda di quei tempi»! Evidentemente a quella suora non piacciono molto, pur rendendosi conto dell’importanza storica di questi affreschi, “vecchi del Milleduecento”.
L’affresco più completo e interessante raffigura l’Ultima Cena di Gesù con i suoi discepoli. L’attenzione dello spettatore viene convogliata direttamente sulla tavola imbandita: i piatti con i grandi pesci, i calici per il vino, i coltelli, le pagnotte di pane e altri ingredienti che possono sembrare ravioli o gnocchi fritti riempiono la superficie della tovaglia ricamata.
Normalmente nell’Ultima Cena compaiono pane, vino e agnello, ovvero i simboli immediatamente collegati alla Pasqua ebraica. Tuttavia nell’arte del medioevo si incontrano spesso anche altri cibi popolari, facenti parte della tradizione culinaria delle genti contadine. Ritroviamo raffigurazioni, anche in Lombardia e nel Veneto, in cui all’Ultima Cena sono serviti dei gambero di fiume; altre in cui i discepoli tagliano fette di salame; altre ancora, in zona alpina, in cui in tavola compaiono panetti di burro. Più raro invece trovare verdure. Ricordo di aver incontrato verdura all’Ultima Cena solo nei Balcani, dove alcune antiche tavole sono imbandite con le rape.
Ognuno, insomma, apparecchiava la tavola dell’Ultima Cena con quello che era tradizione mangiare a Pasqua. Ed evidentemente a Mantova, nel milleduecento, a Pasqua si mangiava pane, tinca, luccio e gnocco fritto. E un bicchiere di lambrusco.
[rudy favaro]