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Ascolta il Disco Base della settimana
1. JOE JACKSON "Another World"
2. JOE JACKSON "Steppin' Out"
3. JOE JACKSON "Breaking Us In Two"
4. JOE JACKSON "Cancer"
5. JOE JACKSON "A Slow Song"
Joe Jackson è uno dei compositori più eclettici e spregiudicati mai apparsi sul palcoscenico del rock. Di quelli che non hanno mai avuto paura di spiazzare i propri fan mutando radicalmente registro tra un’uscita e l’altra. Prendiamo il suo avvio di carriera, ad esempio: un’accelerazione in slalom fra pannelli di pop-rock nevrotico e pungente (l’hit “Is She Really Going Out With Him”), pietanze esotiche (dal reggae al calypso) e languori soul (“It’s Different For Girls”). Fino al salto carpiato in stile swing di “Jumpin’ Jive”, dove l’ex “gangster” – come amava definirsi – gettava la maschera e si trasformava in raffinato interprete di classici jazz.
Quattro album completamente diversi l’uno dall’altro e un andamento schizofrenico, in cui l’unico punto fermo restava l’eclettismo da cabaret del dinoccolato Jackson, col suo abbigliamento da crooner d’altri tempi e la sua goffa aggressività da rocker mancato. Più d’un tratto in comune con Elvis Costello, verrebbe da dire, se non fosse che quest’ultimo, malgrado gli sforzi, è sempre rimasto fondamentalmente ancorato alla sua “britannicità”, mentre Jackson ha trovato oltreoceano la sua terra promessa.
Poi, però, arriva quel cruciale 1982. Lo sbarco in America è una folgorazione per il giovane David Ian Jackson, per gli amici “Joe” (soprannome affibbiatogli dal nome di un pupazzo). “Night And Day”, notte e giorno d’irrefrenabili eccitazioni. L’Englishman in New York non è un alieno, ma un viaggiatore curioso, che vuole carpire lo spirito della Grande Mela viaggiando attraverso le sue fumose atmosfere notturne, i suoi chiaroscuri, le sue nevrosi, ma soprattutto le sue cento voci musicali.
Jackson resuscita idealmente le orchestre di Duke Ellington, le melodie di George Gershwin, il soul di Marvin Gaye e i musical di Cole Porter (omaggiato sin dallo stesso titolo del disco). In più, si lascia attrarre dalle fascinazioni latine – la salsa di Eddie Palmieri e Ray Barretto – e dalle possibilità offerte da un “combo” di otto elementi, in cui piano, basso, fiati e percussioni fanno da padrone, ma le nuove tecnologie sonore (synth e drum machine) forgiano un seducente involucro di “pop urbano”. Scompaiono così le chitarre, ultimo orpello di quella stagione post-punk che l’irrequieto Jackson si è ormai lasciato alle spalle.
A padroneggiare questo pot-pourri provvedono arrangiamenti raffinatissimi, tanto sontuosi quanto mai sopra le righe.
I nove brani (beati i tempi in cui non rimpinzavano i dischi di riempitivi!) si succedono quasi tutti senza soluzione di continuità, alimentando l’idea di una sorta di concept. Pur diviso in due parti (il lato A, più movimentato, sulla notte, il lato B, più riflessivo, sul giorno) l’album è infatti interamente pervaso da un mood notturno e sinuoso, che contagia fin dalle prime note di “Another World”, il carosello percussivo che dà il benvenuto nel “nuovo mondo”.
La freschezza dei suoni non nasconde l’occhio critico di Jackson, che usa quasi toni da indagine sociale vagando spaesato per le vie di “Chinatown”, al ritmo d’un jazzy-pop orientaleggiante scandito dal piano e dalle percussioni esotiche, camuffandosi da santone ethno-funk à-la Byrne (anche nel vocalismo nevrastenico) per denunciare le aberrazioni della “TV Age” (“Tv rules/ pretty soon you won’t be able to turn it off at all”), divenendo egli stesso “Target”, bersaglio (“Someone could smile at me then/ shake my hand then gun me down”) in una selva di bonghi e congas.
Ma a mandare in gloria l’album è il singolo “Steppin’ Out”, praticamente la quintessenza dell’anima più lieve e innocente del decennio ’80. Una radiosa melodia che si fa largo nel palpitante incedere elettro-pop delle tastiere glamour, tra un piano squillante e una possente linea di basso, alla ricerca di una via d’uscita dall’oppressione della metropoli (“We so tired of all the darkness in our lives/ with no more angry words to say/ can come alive… get into a car and drive/ to another side/ me Babe – Steppin’ out/ into the night/ into the light”).
Dopo la sbornia del lato A, il “day side” volge alla malinconia, con toni più pensosi e amari.
“Breaking Us In Two” è una languida piano-ballad che echeggia gli Steely Dan di “Rikki Don’t Lose That Number”, mentre il sardonico jingle salsa di “Cancer” offre il poco rassicurante avviso che “everything gives you cancer”.
Le due ballate finali sono una staffilata al cuore. L’epica “Real Men” lambisce un climax quasi “spectoriano” con la sua solenne orchestrazione d’archi (sintetici) e pianoforte a cullare l’invettiva di Jackson contro la “guerra dei sessi”. “Slow Song” è un disperato inno al “lento”, ultimo baluardo contro la tirannia della musica frenetica e disumana (“And I’m tired of dj’s… /I’m gonna tell him to… / Play us a slow song”), ma anche lucido ritratto di solitudine e frustrazione: sette minuti impreziositi dal piano, dall’organo Hammond e da un’intensa performance vocale, che accumula pathos ed esplode nella liberatoria implorazione finale.
Jackson accompagnerà la promozione del disco con roboanti dichiarazioni sulla “morte del rock”, anticipando di diversi anni la celebre sortita di Sting.
Quasi vent’anni dopo tenterà il bis con “Night And Day II”, ma senza più raggiungere i fasti dell’originale, che resterà anche il suo unico disco ad aver scalato la top ten Usa (4° posto).
Sempre nel 1982, invece, uscirà anche “The Nightfly” di Donald Fagen, altro volo notturno sotto le stelle del jazz. E la lunga notte dell’America tornerà a luccicare ancora.