Disco Base proposto e commentato da Lorenzo Pirovano, giornalista
Ascolta il Disco Base della settimana
1. NIRVANA "Serve The Servants"
2. NIRVANA "Heart-Shaped Box"
3. NIRVANA "Rape Me"
4. NIRVANA "Very Ape"
5. NIRVANA "Pennyroyal Tea"
“Questo disco non è particolarmente più crudo o più emotivo degli altri. I coglioni mi girano ancora per gli stessi motivi di qualche anno fa. C’è gente che fa del male ad altra gente senza motivo, ed io voglio massacrarla. Questo è il succo”. Così Cobain tentò nel 1993 di spiegare la gestazione del seguito di Nevermind. Prima di pubblicare il terzo (ed ultimo) full-lenght la band di Seattle aveva raggiunto la fama planetaria grazie all’accecante vitalità di “Nevermind”: un album ispirato, intelligente, sincero, in grado di fotografare con ruvido lirismo l’alienazione collettiva e le emozioni della gioventù americana nella terra desolata di inizio anni Novanta. Questo fu il segreto di quelle dodici canzoni, a cominciare dalla più celebre del lotto, “Smells like teen spirit”. Ma quel momento di celebrità cristallina non durò molto. Come sempre accade, l’industria discografica si impadronì del fenomeno di Seattle e in generale del nuovo rock alternativo, strumentalizzando ogni messaggio, ogni significato. Nel periodo di massimo fulgore del grunge, Cobain iniziò l’album della consacrazione in maniera dunque sarcastica, avendo la lucidità di essere alla fine del ciclo: “Il disagio giovanile ha fruttato abbastanza, ora sono vecchio e annoiato”. Queste sono le parole del fenomenale incipit di “Serve the servants”, che riassume adeguatamente la parabola del grunge e del suo riluttante profeta, Kurt Cobain appunto. Non è certo un album facile, “In Utero”. Animo inquieto e punk, Cobain intendeva allontanarsi dagli stilemi più accattivanti che lo avevano incoronato rockstar più importante del pianeta. L’abrasiva produzione di Steve Albini, cardine del noise USA e produttore di band venerate da Cobain come Pixies e Jesus Lizard, non fu casuale. Gli scazzi con la Geffen (che impose il rimixaggio di un paio di brani), il tormentato rapporto con la moglie Courtney Love, l’invasione dei mass media nella sua vita privata dopo la nascita della figlia, l’endemica tristezza che si portava dentro, la faccia oscura e il prezzo del successo: tutto questo confluì in un album schietto e malato, caratterizzato dalle migliori liriche mai scritte da Kurt, contenenti spesso foschi presagi di quella fucilata che ne avrebbe presto terminato l’esistenza. Chiaro quindi che ne derivò un album stilisticamente schizofrenico. L’equilibrio tra le penetranti melodie e le felici intuizioni punk-noise che aveva fatto la fortuna delle varie “Lithium” è spezzato. Se brani come “Heart-shaped box”, “All apologies” e “Rape me” si riallacciano al lavoro precedente, con quella alternanza di parti lente e rumore che è un po’ il marchio di fabbrica del gruppo, altrove il trio spiccò il volo verso inusitati empirei noise, ad esempio nella conclusiva “Gallons of rubbing alcohol flow though the strip”. Ma andiamo con ordine.
L’album si apre con con “Serve The Servants”, traccia tipicamente rock: una batteria che è tutto un rullante, ritmo scanzonato e quel timbro cosi tipico di Kurt, rauco e profondo. Solamente intorno al secondo minuto c’è un discreto assolo di chitarra, ma non abbastanza tenace o sperimentale da poter dire che si tratta di un “buon solo”. Una traccia che conta di più sul versante autobiografico, perché ci rivela le tensioni/distensioni tra Kurt e il padre nel tentativo di trovare un equilibrio esistenziale. E’ sufficiente giungere alla seconda traccia del disco “Scentless apprentice”, per accorgersi che il bramato equilibrio è solo un miraggio, più che palpabile il senso di angoscia che più attanaglia Kurt, che grida a squarciagola nel finale “Go away!” E’ una canzone caratterizzata da suoni distorti e nella quale alle strofe recitate sotto forma di brontolio e basate su uno dei romanzi preferiti di Kurt (“Il Profumo” di Patrick Suskind) si alternano a urli strazianti, senza speranza. Sono da notare gli interventi musicali di Dave Grohl nella composizione della canzone: il pezzo iniziale alla batteria, e il riff di chitarra soprattutto. Si continua con “Heart-shaped box”, che è il primo singolo estratto da “In Utero” divenuto famoso anche grazie al fantastico video realizzato da Anton Corbijn. Il brano narra delle vicende sentimentali di Kurt ed il titolo allude ad una scatola di cioccolatini che il cantante avrebbe regalato a Courtney Love. Il video e il testo stesso sono alquanto inquietanti ed enigmatici, a conferma del fatto che lo stato mentale di Cobain è sempre più precario e disturbato: “I’ve been locked inside your Heart-Shaped box for a week I was drawn into your magnet tar pit trap, I wish I could eat your cancer when you turn back; Hey wait I’ve got a new complaint Forever in debt to your priceless advice “. Resta comunque una delle mie preferite del disco. La quarta traccia è invece “Rape Me”, che nonostante le aspre critiche che sollevò a causa del titolo, è una canzone contro lo stupro, diremo l’ideale seguito di Polly di Nevermind. Si basa su un giro di chitarra che somiglia un po’ a quello di Smells Like Teen Spirit ma rallentato; la canzone può essere benissimo intesa anche come un attacco alla stampa invadente che distrugge la vita privata degli artisti. Cambio improvviso di toni e melodie con il sesto pezzo “Frances Farmer Will Have Her Revenge on Seattle”, un brano che presenta un ritmo cadenzato con un testo ironico e scivoloso dedicato alla “Frances Farmer” a cui Cobain si sentiva molto affine: si trattava di una star dalle idee troppo diverse per l’america degli anni ’40 che dopo essere stata etichettata come comunista e atea, venne fatta rinchiudere in manicomio e lobotomizzata. La tematica del successo che ti risucchia e finisce per distruggerti è un leitmotiv che si ritrova con una certa continuità anche nei precedenti Bleach e Nevermind, ma qui la maturità musicale di Kurt si mostra più definita e decisa. Si continua con una track “Dumb”, scritta molto prima rispetto al resto dell’album, tanto che mantiene caratteristiche molto più simili ai pezzi di Nevermind. E’ una canzone molto delicata e probabilmente tra le più dolci scritte dalla band di Seattle. A detta dello stesso Cobain è dedicata a tutte quelle persone che vivono con gioia la vita pur non avendo niente da gioire, nel testo troviamo infatti “I think i’m dumb or maybe just happy”.”Dumb” si conferma come un’avvolgente litania in cui si intrecciano echi della tossicodipendenza e dell’infanzia di Kurt, sua ballata definitiva e struggente confessione accompagnata da un soave violino e da una voce appesa a corde emotive sottilissime (My heart is broke / but I have some glue”). Stacco deciso con “Very Ape”, che è un vero e proprio attacco epilettico scanzonato di 2 minuti. Nulla di particolare a livello musicale, ancora una volta è più importante il cosa rispetto al come: si tratta di un inno contro la virilità abietta, contro quella caratteristica maschile che Cobain tanto disprezza nella gente. La traccia numero 8 è “Pennyroyal Tea” che tanto ha reso famoso l’album perché si tratta di una canzone dal testo ambiguo, che probabilmente si riferisce a una miscela di erbe capace di provocare l’aborto. Lo stesso tema e la stessa ambiguità di fondo che ricorre nell’artwork del CD eseguito in collaborazione con Alex Grey… Se è una traccia che parte con una strofa dal tono sommesso, possiamo dire che esplode poi in un ritornello lacerante, struggente, malinconico. Probabilmente uno dei pezzi più trascinanti di questo “In Utero”, il più intrinsecamente connesso al filo rosso che lega il disagio esistenziale di ogni canzone. A seguire “Milk It”, un brano schizzoide in cui è presente la solita formula del gruppo strofa calma-ritornello urlato, ma che colpisce per l’interpretazione di Kurt che sembra impazzito e la sua voce da fuori di testa; il testo oltre a contenere un’allusione alla droga (del resto è ben nota la dipendenza del suo leader) diviene archivio di imbarazzanti versi tipici del sarcasmo nero di Cobain: “Look on the bright side is suicide”… sappiamo tutti come andrà a finire. La decima traccia di In Utero è “Radio Friendly Unit Shifter”, una canzone che di “radiofonico” non ha niente, carica di strappi e sussulti e sostenuto dalla base percussiva di Dave Grohl e dalle frasi di basso di Novoselic. Nel ritornello Kurt ripete più volte “What is wrong with me?” siamo davanti al solito groviglio di paranoie presenti in quasi tutte le canzoni dei Nirvana. La fulminea “Tourette’s” che vede un Cobain isterico quasi a voler rappresentare il disordine neurologico (la Sindrome di Tourette appunto), ereditario, che causa ripetuti e involontari movimenti del corpo e urla incontrollate; per questo non a caso verrà cantata nei live ogni volta in maniera diversa. La canzone parte con un Cobain che nell’intro incita ad un rock moderato, per poi esplodere in un furore di chitarre e batteria dove Grohl da veramente il meglio di sé. Ascoltabile, ma non è tra le migliori del disco. In chiusura IL pezzo “All Apologies”: sentito, disarmante, sofferto. Siamo di fronte a una delle mie canzoni preferite del disco, perchè smorza i toni dell’album rendendoli pacati, struggenti e insieme soffocati. Si può considerare come un vero e proprio testamento di Kurt che guarda alla realtà disilluso e rassegnato:”What else should I be, All apologies” e ancora “In the sun In the sun I feel as one/ In the sun In the sun Married Buried”. La profezia che si respirava già in altri precedenti brani (come in Negative Creep o Milk It) è compiuta: non ci sono vie di uscita, l’unica possibilità per sublimare noi stessi è la morte, tutte le altre spiegazioni sono “All Apologies”. “Gallons of Rubbing Alcohol Flow through the Strip” è invece una bonus track presente solamente nella versione europea dopo 12 minuti di silenzio da “All Apologies”, perchè come affermano sarcasticamente gli stessi Nirvana “Devalued american dollar purchase incentive track”, cioè Kurt fa riferimento ai soldi che gli Americani dovrebbero versare in più per averla, comprando un disco di importazione invece del made in USA. Curioso: nel momento in cui raggiunse la maturità artistica non perse mai il suo sarcasmo. Credo non sia mai stato cosi tanto alienato come lui stesso credeva, credo piuttosto che la società fosse miope alle sue visioni, miope alla verità..
Devo dire che non m’intristisce tanto la invereconda quantità di analisi e liturgie dedicate a Kurt Cobain (che per la sua natura di stereotipo rock al cubo – scellerato, veemente e fragile a un tempo – ne meriterebbe di più e di migliori), quanto quel partire sistematicamente sempre dal suicidio come chiave interpretativa, come punto di partenza imprescindibile perchè esse diventano punto di vista pernicioso, distortivo del fenomeno “Nirvana”. E tuttavia non posso negare che questo album sia l’esemplare più lungimirante in questo senso, l’album che più degli altri aveva profetizzato come sarebbe andata a finire: un album sensibile, disperato, vero, crudo, che se da un alto si allaccia al precedente Nevermind, dall’altro ne rappresenta uno stadio superiore. Il miglior sound dei Nirvana è qui presente, maturo e consapevole, foriero dell’unica cosa che a Kurt stava davvero a cuore: la verità ti libera dal dolore. Non crocifiggetemi quindi per il mio personale voto, perché qui non si sposa solo la musica, si sposa una causa.