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Ascolta il Disco Base della settimana
1. CREAM "Strange Brew"
2. CREAM "Sunshine Of Your Love"
3. CREAM "World Of Pain"
4. CREAM "Tales Of Brave Ulysses"
5. CREAM "Outside Woman Blues"
I Cream sono la band più celebre della scena blues revival che prese piede verso la metà degli anni 60 in Inghilterra. Di fatti, il loro sound partì dalle musiche afroamericane, il blues del delta del Mississippi e il rock ‘n’ roll degli anni Cinquanta, e approdò in terre molto prossime all’hard-rock. I Cream hanno fatto da ponte tra il blues-rock dei bianchi, quello di John Mayall e dei primi Yardbirds, e l’hard-rock dei Led Zeppelin e dei primi Black Sabbath. In mezzo, insieme a loro, si trovano gli Who di “My Generation” e i primi Rolling Stones che, però, a differenza di Clapton e soci, pur essendo bianchi nella pelle restavano “neri” nello spirito. Jimi Hendrix, che per sua stessa ammissione decise di formare la sua band sull’onda del furore incendiario sprigionato proprio dai Cream, va collocato, nell’opinione di chi scrive, in un’area a parte, essendo egli erede diretto delle sofferenze e dello sfruttamento subiti dai grandi bluesmen neri del passato. Il blues è dolore da lenire, e la differenza tra Hendrix e Clapton (i due chitarristi più amati degli anni Sessanta) è che quest’ultimo amava il blues, mentre Hendrix era il blues.
Quello dei Cream fu anche uno dei primi supergruppi rock: il chitarrista Eric Clapton, con trascorsi negli Yardbirds e nei Bluesbreakers di John Mayall; il batterista Peter Baker, che aveva collaborato con Alexis Korner e col musicista nigeriano Fela Kuti; e il bassista Jack Bruce, anche lui precedentemente affiliato alle band di Mayall e Korner.
Debuttarono con “Fresh Cream” nel 1966, un album composto essenzialmente da cover di vecchi pezzi blues riproposti con la potenza dei suoni elettrificati. L’innovazione stava nelle fragorose distorsioni di Clapton, create grazie al cosiddetto effetto wah-wah, che segnarono un nuovo modo di suonare la chitarra elettrica, indicando un diverso territorio su cui sciorinare il proprio virtuosismo; territorio sul quale ha esercitato totale dominio Jimi Hendrix.
Con il secondo disco “Disraeli Gears”, i Cream, aiutati negli arrangiamenti anche dal produttore Felix Pappalardi, trovarono un propria direzione compositiva liberandosi dall’ingombro delle cover che dominavano il disco precedente. In questo modo i tre, pur mantenendo i legami strutturali col blues, furono liberi di inoltrarsi stilisticamente verso l’hard-rock e la musica psichedelica, scongiurando così il pericolo che la loro musica restasse semplicemente un banale, seppur gradevole, revival.
Il disco parte da “Strange Brew”, brano dal gusto pop dominato dalla batteria sorniona di Baker e dagli assolo sfuggenti di Clapton. Quanto a Bruce, è spesso considerato tra migliori bassisti di sempre: il suo ruolo non è quello di semplice portatore di ritmo, ma quello di arguto tessitore di linee-guida armoniche per gli assalti di Baker e Clapton. Ne è la prova la successiva “Sunshine Of Your Love”, il loro capolavoro, con Bruce che si distingue anche per la possente prestazione vocale. Clapton e Baker fanno il resto: il primo con uno dei suoi assolo più memorabili, e il secondo con il suo stile crudo ma pulito.
”World Of Pain” è un altro pezzo in balìa del basso di Bruce, che gli conferisce un tono quasi elegiaco; segue la breve cavalcata psichedelica di “Dance The Night Away”, con il basso di Bruce che cuce incantati arabeschi e la chitarra di Clapton che sembra quasi imitare il suono di un sitar. “Blue Condition” risulta persino ironica: una cantilena burlesca tra country e blues.
I riverberi fantasmagorici della chitarra di Clapton in “Tales Of Brave Ulysses” vengono infiammati dall’imponente drumming di Baker, mentre nell’assolo finale il già menzionato effetto wah-wah tocca epiche vertigini.
”Swlabr” con le sue accelerazioni supersoniche regala lauti spunti per tutti gli amanti dell’hard-rock. Il brano più affascinante del disco risulta, però, “We’re Going Wrong”: uno spettrale raga-blues straniato dal crescendo febbricitante dei tamburi e dal canto messianico di Bruce.
Solo verso la fine del disco il gruppo sfodera due dei suoi blues-rock magistrali: quello roccioso di “Outside Woman Blues” e quello campestre, con tanto di armonica, di “Take It Back”.
Il traditional “Mother’s Lament”, cantato in coro come un’accolta d’ubriachi all’uscita di un’osteria, pone fine al disco.
I Cream non potevano durare molto; troppi erano i capricci da primedonne, troppe le invidie reciproche, troppe le ambizioni di ognuno dei tre di prevalere sull’altro, e infatti, dopo altri due dischi, nel novembre del ’68 ciascuno prese la propria strada: Bruce si diede al jazz, Baker alla world music e Clapton si mise in proprio. Quest’ultimo riuscirà perfino a disintossicarsi dall’eroina, ma non riuscirà a liberarsi dall’arido manierismo tecnico che pervade quasi tutti i suoi lavori solistici. Dispiace oggi constatare che il chitarrista rivoluzionario di un tempo si sia trasformato rapidamente in uno Steve Vai qualsiasi.