Fleetwood Mac “Rumours” (1977)

Fleetwood Mac “Rumours” (1977)

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In onda tutte le sere alle 20e15 - 22e15 - 00e15

1. FLEETWOOD MAC "Second Hand News"
2. FLEETWOOD MAC "Dreams"
3. FLEETWOOD MAC "Never Going Back Again"
4. FLEETWOOD MAC "Don't Stop"
5. FLEETWOOD MAC "Go Your Own Way"

discobase-fb-logoA volte il successo si paga, in termini di credibilità artistica; così almeno recita l’adagio. Il riferimento, come da copione, non concerne tanto l’immaginario collettivo di quella pop culture che fagocita icone e massimalizza ogni segno in una continua esperienza “sensuale”, quanto l’idea, ristagnante nel conservatorismo indie, tesa a rigettare qualsivoglia consonanza fra business e traguardi artistici (eppure Bowie qualcosina dovrebbe avercelo insegnato, no?). Secondo questa visione preferenziale, per i Fleetwood Mac, i trenta milioni di copie vendute di “Rumours” sono stati il lasciapassare per la leggenda e, paradossalmente, il biglietto di sola andata che oggi li relega ad esperienza marginale dei ‘70s, ignorata da quella “intellighenzia” critica per cui “pop” è alimento commestibile solo se condito dal suffisso “indie”.
Già, mi piacerebbe fosse davvero così; se non altro perché, in tal modo, l’intera questione potrebbe liquidarsi come l’ennesimo, truculento malinteso ai danni dei “famosi” di turno. Eppure questa non è la verità. Non lo è perché nella nostra epoca “post-post-tutto” i pregiudizi verso l’overground sono stati buttati alle ortiche persino dalla stampa più intransigente, finalmente rinsavita – che sia la volta buona? – dalle battaglie “underground vs. qualsiasi cosa” degli ‘80s. Ed è proprio alla luce di questo mutato quadro ideologico che l’esclusione dei Fleetwood Mac dal pantheon dei “big” brucia terribilmente: perché questo disinteresse? Perché ci si dimentica – volontariamente? – che nella sua incarnazione “1975 – 1982” la band sia stata la punta di diamante dell’AOR a stelle e strisce? (By the way: poco importa che le origini del combo siano rintracciabili in Terra D’Albione, “questi” Fleetwood Mac restano americani in tutto e per tutto). Perché non tributare il dovuto rispetto a una “trilogia ideale” (l’ancora imperfetto “Fleetwood Mac”, i perfettissimi “Rumours” e “Tusk”) tranquillamente promuovibile a pietra filosofale della popular music tutta? Basta fingere, suvvia; non si sta forse meglio dopo un bell’outing liberatorio?
Ma poi, quale outing d’Egitto? Più che svelare un segreto inconfessabile o pulire l’armadietto dagli scheletri, non si farebbe altro che ripristinare l’equilibrio di un ecosistema pop in cui la band è stata un pezzo grosso della catena alimentare. Non a caso, nelle sue file hanno stazionato tre fra i songwriter/interpreti più carismatici e influenti del loro tempo: il menestrello folk-blues Lindsey Buckingham, la gelida chanteuse Christine McVie e lo spirito inquieto Stevie Nicks, “fimmina” nel corpo e nell’anima, nonché esempio per le donzelle canterine dei decenni a venire (Tori Amos, Courtney Love, Mary J. Blidge… ma la lista sarebbe lunga): sue alcune fra le pagine più memorabili del complesso, tipo quella “Landslide” che hanno coverizzato un po’ tutti, dagli Smashing Pumpkins alle Dixie Chicks, e che l’avesse scritta Joni Mitchell o Laura Nyro ora staremmo qui a strapparci i capelli, eleggendola all’unanimità uno dei massimi capolavori del cantautorato in gonnella (ma lo è comunque, non temete!). D’altro canto, il miracolo non sarebbe stato possibile se queste tre primedonne non avessero potuto contare su una delle sezioni ritmiche più potenti e collaudate dell’epoca, composta dallo stangone Mick Fleetwood alla batteria – il pilastro su cui si è retta la combriccola fin dagli esordi blues-rock nei tardi ’60s – e dal basso bello rotondo dell’impeccabile John McVie.
Un’alchimia di stili e personalità, quella raggiunta in “Rumours” (Warner, 1977), capace di generare focosi giardini delle delizie, lenzuola intrise di umidi incantesimi pop, stregonerie produttive in cui la West Coast esorcizza i suoi fantasmi e celebra una nuova, “lubrificata” economia di linguaggio. Un documento capace di parlare al proprio tempo – quello del boom della disco, delle copule “cybertroniche” di Donna Summer su “I Feel Love”, del punk “Made in USA” che lentamente traslocava in Inghilterra – prendendone le distanze, e porsi così nell’invidiabile posizione di “classico”. E poi c’è il sottinteso fattuale a insaporire il soffritto di svenevolezze da soap opera: riecco il “Peeping Tom” latente in ciascuno di noi a godersi la mise en scène del dolore, a spiare dal buco della serratura la fine di ben tre relazioni sentimentali (il fidanzamento fra la Nicks e Buckingham, il matrimonio di Fleetwood, quello fra John e Christine McVie), con i cantanti che si mandano vicendevolmente a quel paese, o meditano, insonni, sul loro futuro. Una ciurma di spiriti alla deriva, occupati a fare sci su piste di coca e scambiarsi pettegolezzi – le “second hand news” citate in apertura – da milionari disperati (della serie: “Anche i ricchi piangono…”). C’era materiale umano a sufficienza per costruirci un reality, se all’epoca qualcuno avesse avuto l’intuizione.
Come il gruppo sia riuscito a trasformare cotanto stato confusionale in fruttifera messe di genio, resta uno dei grandi misteri della musica; uno dei motivi per cui l’amiamo, aggiungerei. Eh sì, perché ogni dettaglio, in “Rumours”, pare sempiterno, a partire dalla copertina con la posa equivoca di Fleetwood e Nicks (guarda caso, in quel periodo i due avevano iniziato una relazione all’insaputa degli altri membri della band), fino al suo sound stratificato, curato al millimetro, frutto d’infiniti ritocchi e certosini accorgimenti in sede di registrazione.
Peculiare, fra le tante peculiarità, il trattamento sulle voci: quelle di Nicks e Buckingham sono ulteriormente alzate di tono, laddove il contralto della McVie viene reso ancor più grave e ambiguamente “maschile”. Il risultato è una confusione di gender che si sposa a meraviglia con le premesse “mimetiche” di partenza, ossia raccattare il vecchiume sunshine-pop e folk-rock, trasportarlo in laboratorio, e lì scomporlo e ricomporlo alla luce del Delta blues, le armonie vocali della Frisco Bay e le infinite possibilità manipolatorie dello studio d’incisione; in ultimo, confonderne le origini, trasfigurarne “lombrosianamente” i tratti somatici, creare nuova musica.
Ma veniamo al disco… L’inizio è tutto per il saltellio “buckinghamiano” di “Second Hand News”, numero bubblegum che sottopone i The Mamas & The Papas ad una cura ricostituente (per la povera Mama Cass non ne sarebbe stato bisogno, in realtà) a suon di basso-trivella, un’elettrica blues-rock e controcanti luminosi come il solleone a mezzodì. Interamente acustico, invece, il bozzetto “folkie” “Never Going Back Again”, laddove la muscolosa “Go Your Own Way” è quintessenza AOR di hard-rock lussuoso, sorretto da una melodia a dir poco memorabile.
Da par suo, la tastierista Christine McVie sfoggia un sorprendente chiffon di stili e influenze: la Band riletta e “cadenzata” nel passo epico di “Don’t Stop”, con un bel pianoforte honky tonk e organo a suggerire il viaggio “on the road” nel sogno americano dell’eterna rinascita, delle possibilità illimitate (“In fondo, domani è un altro giorno…”); il pop-blues aromatizzato al clavinet di “You Make Loving Fun”, che nel ritornello si gonfia di cori celesti, angeli “byrdsiani” scesi sulla terra a celebrare le delizie dell’amore clandestino; l’intimismo “mitchelliano” del lied “Songbird”, liturgia panteistica animata da bronzee corde vocali e semplici accordi di pianoforte.
“Dreams” è troppe cose e tutte contemporaneamente, per cui mi si perdoni l’ennesima – e non ultima – lungaggine. Trattasi non solo del primo e unico numero 1 dei Fleetwood nella classifica americana dei singoli, oltre che prima canzone della Nicks esplicitamente sul “dopo-Buckingham” (“Thunder only happens when it’s raining/ Players only love you when they’re playing/ Say…Women, they will come and they will go/ When the rain washes you clean, you’ll know”), ma anche e soprattutto traguardo inarrivabile di forma-ballata (stranamente impostata su un ritmo quasi disco) a cui è negato il pur intuibile schema “verse-chorus-verse” per divenire flusso di coscienza “statico”, lamento di una voce che è scampolo di luna, ricciolo aeriforme fra gli astri. Altrettanto esemplare il lavoro di “tappabuchi” svolto da Buckingham in qualità di arrangiatore: slide incorporea con sapiente uso del pedale del volume, un pianoforte elettrico a dar man forte al beat, congas, rintocchi di marimba… Non pare d’assistere al “farsi di un’anima”, allo srotolarsi e raggomitolarsi dei tessuti più intimi del proprio “vissuto”? Non ci sono parole a sufficienza, ahimè, nel rammaricarsi per la poca stima di cui gode questo autentico visionario del pop-rock, né per capire come mai “Dreams” non sia considerato – come invece dovrebbe – uno dei capolavori di studio della nostra era.
Fin qui il terreno visibile, quello fatto d’istantanee avvolte in un fascio di luce, per quanto candide o “peperine” esse siano. Ricordiamoci però che “in ogni opera d’arte che si rispetti, come minimo c’è tutto”, e che quindi anche “Rumours” ha la sua zona d’ombra, il suo cuore di tenebra. All’esame dei brani componenti suddetta “dark side” sono dedicati i successivi tre paragrafi; a voi la scelta se leggerli o meno (in caso optaste per la seconda ipotesi, non vi biasimerei).
“Oh Daddy” mi ha sempre trasmesso uno straniante senso d’inquietudine, forse perché associabile, nel titolo, al vaudeville paranoico di “I’ve Written A Letter To Daddy” eseguito dalla “decaduta” Bette Davis/Baby Jane Hudson (ve la ricordate quella scena? Brrr…). In verità, i motivi che giustificano questa chiave di lettura sono diversi, a cominciare dall’ambiguità stessa del “paparino” qui chiamato in causa: un pusher? Un incestuoso padre-padrone? Magari un ingombrante older lover che non si ha il coraggio di scaricare? Bah… L’autrice McVie dichiarò d’aver affettuosamente dedicato il brano a Mick Fleetwood, ma è difficile intravedere sincera gratitudine in versi che, al contrario, secernono venerazione “patologica” e dissimulato desiderio di fuga (“Why are you right when I’m so wrong?/ I’m so weak and you’re so strong/ Everything you do is just alright/ And I can’t walk away from you, baby, even if I tried”). L’ostentata, quasi infantile povertà lessicale e semantica sembra invece collocare la McVie nei panni di una geek girl ante-litteram (ah, Lisa Germano e le sue anti-eroine…) completamente assuefatta/sottomessa al partner “dominante”; abulica fanciullina trentenne a cui nemmeno la fantasia può offrire il conforto dell’arcobaleno o del paese di sogno che, a sentire Judy Garland, si celerebbe al di là di esso (e ci speriamo tutti…). A consolidare il mood interviene poi la musica: coltri di depressione “in minore”, tonfi sordi di pianoforte all’inizio di ogni strofa, la voce indifesa e appena percepibile di un organetto, il concerto di sovratoni che Buckingham estrapola dalle sue chitarre acustiche, manco avesse depredato il David Crosby di “Orleans” e ora ne gettasse al vento i diamanti grezzi, stendendo “catene d’oro da stella a stella”.
Una “catena” di sicuro c’è, ed è quella evocata nel tour de force corale di “The Chain”, unico brano scritto da tutti i membri della band e comunione pagana fra le tre anime del Mac-sound: quella folk della Nicks, quella più perversamente pop della McVie e quella bluesy di Buckingham. L’abbeveratoio è giustappunto il blues rurale a cui si disseteranno i virgulti dell’alt-country statunitense, ma qui è scosso dai tamburi apocalittici di Mick Fleetwood e reso inverosimilmente gotico da un dobro urlante l’evangelismo dei futuri 16 Horsepower. Il risultato è una cavalcata epica che a 3 minuti prende fiato e riparte grazie a un giro di basso – quel giro di basso – dalle timbriche già new-wave (sembra di sentire Jean Jacques Burnel degli Stranglers!), tanto per chiarire che qui non si sta parlando di musicisti squisitamente “fuori dal tempo”…
Posto in chiusura, il terzo brano firmato dalla Nicks – essendo il secondo la deliziosa filastrocca a due voci “I Don’t Want To Know” – si riallaccia alle atmosfere magiche di “Rhiannon”, consegnandoci occultismo da “paperback edition” per un’irresistibile Stevie apprendista streghetta. “Gold Dust Woman” è infatti purissimo rituale sciamanico o, all’occorrenza, seduta spiritica infarcita di terrificanti presagi (“Rock on, Gold Dust Woman/ Take your silver spoon and dig your grave…”); ipnotico girotondo per chitarre effettate (una dal timbro synthetico, un’altra acustica e terrigna, un’altra ancora galleggiante in una palude di feedback), bicchieri infranti e voce arrochita, felinamente letale. Piccola chicca: negli ultimi venti secondi della traccia, in un estremo raptus di autoflagellazione, Buckingham si perde in un delirio vocale degno del Tim Buckley di “Starsailor”, quasi fosse prigioniero d’un maleficio. Da far accapponare la pelle, giuro.
Termina proprio così “Rumours”, inghiottito dalle sabbie mobili della paranoia. “Silver Springs” (Nicks), altra devastazione psichica di proporzioni immani, resta fuori dalla scaletta. Finirà a far la b-side del singolo “Go Your Own Way” (oggi è contenuta nell’indispensabile deluxe edition datata 2004), con profondo rammarico dell’autrice, convinta d’aver messo a segno un altro strike, artisticamente parlando. C’è però da dire che la sua eventuale inclusione nel disco avrebbe spostato eccessivamente l’ago della bilancia verso il sentimentalismo “tragico”, mettendo così a repentaglio il delicatissimo – e vanesio – equilibrio su cui si regge l’opera stessa. Che sia stata proprio questa “fleetwoodiana” ambiguità di fondo (sorrisi apollinei o sgocciolii di ombre? Immagine o sostanza? Happy o Sad?) a depistare certi analisti del vinile e convincerli dell’incosistenza del progetto? Difficile a credersi, specie considerato il peso tutt’altro che marginale avuto da parole come “mito” e “illusione programmata” nella genesi e nel continuo (ri)generarsi della musica popolare. Warhol lo sapeva. Bob Dylan lo sapeva. I Beatles e Brian Epstein pure. E allora qual è il punto? No, seriamente…

 

 

 

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Oltre a vicepresiedere come si conviene a un vicepresidente, ci guarda dall'alto dei suoi 192 cm. La foto non tragga in inganno.