Disco Base scelto e commentato da Luigi Viva, giornalista e biografo di Pat Metheny
Ascolta il Disco Base della settimana
1. PAT METHENY GROUP "San Lorenzo"
2. PAT METHENY GROUP "Phase Dance"
3. PAT METHENY GROUP "Jaco"
4. PAT METHENY GROUP "Aprilwind"
5. PAT METHENY GROUP "April Joy"
Era il 1978 quando Pat Metheny, chitarrista bianco con all’attivo un paio di dischi da solista (il primo registrato con l’ausilio di un certo Jaco Pastorius), iniziava un fruttuoso sodalizio con il pianista Lyle Mays e formava il Pat Metheny Group insieme al bassista Mark Egan e al batterista Dan Gottlieb.
Il primo omonimo album di quella formazione è rimasto il manifesto di uno stile che alla tradizione del jazz deve ben poco, ma è sradicato anche dai collegamenti con rock, funky e ritmi esotici che tanto affascinavano i santoni della fusion in quel periodo: l’arte di Metheny e soci rifiuta la dimensione puramente fisica, corporale della musica e si configura, invece, come la trasposizione sonora di un paesaggio imprigionato in un acquerello impressionista. Da un punto di vista tecnico, piuttosto che porre l’enfasi sul groove, tutto si gioca sulle timbriche e sul fraseggio, con l’obiettivo di ricreare un’atmosfera limpida, cristallina.
Capolavoro nel capolavoro è “San Lorenzo”, dieci minuti paradisiaci in cui è Mays a farla da padrone, grazie a un’improvvisazione particolarmente lirica e intensa. Il tema, magnifico nella sua semplicità, viene riproposto ciclicamente all’interno del brano. La struttura è molto aperta, basata sulla stessa elementare progressione di accordi, per lasciare libertà e spazio ai solisti. Il “trucco” viene ripetuto nell’altra mini-suite, “Phase Dance”. “Jaco” è invece più genuinamente jazz e presenta anche un tema più vivace e ritmato. “April Wind” è un breve intermezzo per sola chitarra che funge da preludio ad “April Joy”, altra vetta del disco, stavolta con Metheny sugli scudi e una struttura ben più complessa, con richiami addirittura al progressive-rock.
A chiudere l’album una “Lone Jack” quasi be-bop, una specie di paradosso se si considera ciò che abbiamo ascoltato in precedenza: ma più probabilmente è l’ennesima riprova del desiderio di Metheny di venire “accettato” dai puristi del jazz, che hanno sempre storto il naso di fronte al suo stile così innovativo e anticonformista.
Non sempre, nel corso degli anni, Metheny e Mays sapranno ripetersi su questi livelli, a discapito della notevole popolarità che conosceranno alcuni dei loro dischi (su tutti “American Garage”, del 1979). Inizieranno a sperimentare con diversi formati e generi, allontanandosi sempre di più dal punto di partenza della loro collaborazione.
Forse anche per questo motivo “Pat Metheny Group” rimane un disco unico, epocale; una luce abbagliante in un momento in cui il jazz viveva la prima grande crisi della sua storia, conteso fra un anacronistico revival acustico e un disorientato movimento elettrico.
Davide Rovati