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Ascolta il Disco Base della settimana
1. PETER GABRIEL "Red Rain"
2. PETER GABRIEL "Sledgehammer"
3. PETER GABRIEL "Don't Give Up"
4. PETER GABRIEL "In Your Eyes"
5. PETER GABRIEL "Mercy Street"
Quando finì l’avventura coi Genesis, Peter Gabriel non aveva perso nè capacità nè stile. Era ancora un signor cantante, capace di svariare, in maniera perfetta, dai suoni pop a quelli rock, senza dimenticare la raffinata lezione strumentale che i Genesis portarono avanti per quasi un decennio. Come solista era bravissimo, capace di spiazzare tutti con un capolavoro come “Peter Gabriel” (1980) e stupire, sempre in maniera un po’ folle, con un live intenso come “Play Live”. Il grande colpo però, quello che fa fare il salto di qualità in maniera dirompente, è datato 1986, e s’intitola semplicemente “So”. Gabriel è un fiume in piena, ha da dire e raccontare un sacco di cose, magari un po’ inutili, ma pur sempre curiose. La voglia di fare però, fortunatamente, non si tramuta mai in voglia di strafare e, in barba ai vecchi compagni dei Genesis, realizza un disco completo, solenne, diviso fra pop e rock, e fusioni melodiche etnico-planetarie assai simili a quelle futuristiche dei primissimi Pink Floyd. Impegno e leggerezza, stile e furbizia, un mix perfetto che fece di “So” uno dei massimi successi discografici di tutti gli anni Ottanta. Melodioso e insieme complesso, Peter Gabriel spazia dal rock venato di melodramma di “Red Rain” alla delicatezza ritmica di “Mercy Street”, per approdare a “In your eyes” (aiutato dall’amico Youssou N’Dour) in cui racconta la fragilità e la complessità del mal di vivere del continente Africa.
Sempre sospeso tra realtà, fantasia e leggenda, Peter Gabriel costruisce un disco perfetto in cui la musica (magnifica) sembra dover avvolgere morbidamente suoni e pensieri tipici del Gabriel-pensiero: universo, cosmo, popoli, religioni, futurismo. E non fa difetto sentire, quasi all’unisono, suoni tipicamente africani con melodie spudoratamente pop. Il rock c’è, ma è un rock leggero: a volte, si ha quasi l’impressione di essere stati catapultati su un pianeta lontano e sperduto. “So”, che pure è un disco finalizzato alla pura vendita commerciale, non cade mai in nessun ricatto discografico: Gabriel scrive quello che gli viene dal cuore (ed è tanta roba) ma non cerca mai di strizzare l’occhiolino alle masse: potrebbe essere definito un disco d’elitè per la struttura musicale e i temi trattati, eppure, furbizia e abilità commerciali e promozionali, hanno fatto vendere a “So” milioni di copie in tutto il mondo (ma non fu record, con 50 milioni di copie vendute è “Thriller” l’album più fortunato degli anni Ottanta). L’abilità di Gabriel sta nell’avere composto una serie impressionanti di brani di altissima fattura, senza mai nè cedere qualcosa sotto il profilo musicale nè tantomeno sotto il profilo emozionale: ci sono le rimembranze Stax di “Sledgehammer” e “Big Time”, l’algida “This Is The Picture” (con il contributo non trascurabile di Laurie Anderson), le emozioni purissime di “Don’t give up”, un duetto tesissimo tra Gabriel e Kate Bush (all’epoca all’apice del proprio splendore) in cui si racconta della drammatica realtà della disoccupazione negli anni yuppies della Gran Bretagna governata da Margaret Tatcher.
“So” potrebbe essere definito una sorta di karma musicale, un modo per avvicinarsi alle realtà stellari inseguendo la dolce poesia di note sublimi e fascinose, apice creativo di un Peter Gabriel che, dopo questo album, avrà modo (su commissione di Martin Scorsese) di registrare la magnifica colonna sonora dell'”Ultima tentazione di Cristo”, e l’ottimo “Us” (1992), un filino inferiore rispetto a “So” ma comunque eccellente. E, checchè se ne dica, anche se un pò provato musicalmente, Peter Gabriel non è ancora definitivamente tramontato.