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Disco scelto e commentato da Roberto Palmesi
1. DAVID BOWIE "Five Years"
2. DAVID BOWIE "Starman"
3. DAVID BOWIE "Ziggy Stardust"
4. DAVID BOWIE "Suffragette City"
5. DAVID BOWIE "Rock & Roll Suicide"
All’alba degli anni 70, in Inghilterra, il rock diventa un ballo in maschera. Sotto le sgargianti luci dei neon, impazzano i giovani “dudes”: neo-fricchettoni che trasformano i barbosi raduni eco-pacifisti dei loro cugini hippie in uno sfrenato festival del kitsch. Che sia “peace and love”, insomma, ma senza più vincoli ideologici o politici di sorta. Trionfano così il disimpegno, il travestitismo e l’ambiguità sessuale, in un profluvio di lustrini e paillettes, piume e rimmel, stivali e tutine spaziali. È il tempo del “glam-rock” e di una nuova ubriacante Swingin’ London. “Rock ‘n’ roll col rossetto”, lo definirà John Lennon. In questo carnevale delle vanità, David Bowie centra la maschera perfetta: Ziggy Stardust. Un alieno androgino dalle movenze sgraziate, truccato come una drag queen e munito di parrucca color carota. È lui “l’uomo che cadde sulla terra”, il messia (“a leper messiah”) di una rivoluzione rock che dura una stagione sola, il tempo che passa tra la sua ascesa e la sua caduta (“the rise and fall”). E in questa parabola c’è tutta la rappresentazione dell’arte di Bowie: la messa in scena del warholiano “quarto d’ora di celebrità”, l’edonismo morboso di Dorian Gray, la parodia del divismo e dei miti effimeri della società dei consumi e, non ultimi, i presagi di un cupo futuro orwelliano.
Ma andiamo per ordine. È il 1972 e un anno prima David Bowie, già autore di prove tanto promettenti (il gioiello “Space Oddity”) quanto discontinue, è riuscito finalmente a mettere a fuoco il suo sound in “Hunky Dory”, summa di un nuovo vocabolario rock, al crocevia tra psichedelia malata à-la Velvet Underground, folk d’ascendenza dylaniana e – per l’appunto – glam-rock, sulla scia dei T. Rex di Marc Bolan. Ma per entrare appieno nell’epopea glam, serve un personaggio che colpisca l’immaginario del pubblico. Con un’anima rock e una storia da raccontare: quella di “The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars”. Registrato dallo stesso ensemble di “Hunky Dory”, la band ribattezzata per l’occasione “The Spiders from Mars” – Mick Ronson (chitarra e pianoforte), Trevor Bolder (basso) e Woody Woodmansey (batteria) – e il produttore Ken Scott, è un concept-album su ascesa e (auto)distruzione di un “plastic rocker”, secondo la definizione dello stesso Bowie.
Romantico e voluttuoso, ambiguo e sfrontato, “extraterrestre”, e quindi libero dai tabù sessuali che incatenano l’umanità, Ziggy polveredistelle è la quintessenza dello spirito glam. In lui convivono passato e futuro: figlio dell’aura decadente del cabaret mitteleuropeo anteguerra, è proteso nello slancio avvenirista dell'”Arancia Meccanica” di Kubrick (1971), le cui note iniziali apriranno gli show dello Ziggy Stardust Tour. È la maschera che incorpora tutti gli stereotipi del rock filtrati attraverso la lente grottesca del glam. Una caricatura del divo, destinato a essere idolatrato dal pubblico e stritolato dallo star-system. I suoi modelli sono i padri nobili del rock (Jim Morrison, Brian Jones, Mick Jagger, Lou Reed, Jimi Hendrix), ma anche personaggi improbabili, come Vince Taylor, il “Presley francese”, rocker dei Sixties morto pazzo e suicida che Bowie citerà proprio come diretta ispirazione della sua “creatura”, e The Legendary Stardust Cowboy, ovvero Norman Carl Odom, bizzarro bluesman americano che sarà omaggiato perfino con una cover (“I Took A Trip On A Gemini Spaceship”) in “Heathen” (2002). La finzione scenica, però, prevarica presto la realtà e Bowie si incarna nel suo alter ego fino a immolarlo sul palco, donandogli l’immortalità. Già, perché è sulla dicotomia “effimero-eterno” che si gioca tutta l’opera. E il fatto che alla fine abbia prevalso il secondo (il disco è tuttora considerato un classico) è la dimostrazione che nel dandy londinese marketing e arte sono un binomio vincente e inscindibile.
Musicalmente, l’album è una raccolta di ballate romantiche e di rock’n’roll elettrificati e tiratissimi, al limite del punk. Musica da suonare a tutto volume, come raccomanda il retro della copertina. Nelle undici tracce viene sfoderato tutto l’armamentario glam: dalle voci sguaiate ed effeminate alle chitarre affilate, dagli arrangiamenti pomposi d’archi alle melodie struggenti. Ma in tanto melodramma Bowie non si prende mai sul serio: le sue canzoni sono uno sberleffo alla morale bacchettona, un saggio di trasgressione ironica e, spesso, di puro nonsense. Per aumentare il clamore, poi, confesserà al britannico Melody Maker: “Sono gay e lo sono sempre stato”. Vero o falso, non importa: lo scandalo è creato, perché “fame, what you need you have to borrow” (“fama, quello di cui hai bisogno devi prenderlo in prestito”), come teorizzerà in “Fame” (1975).
La saga di Ziggy inizia con una profezia apocalittica. La Terra è sull’orlo del collasso, restano cinque anni prima della catastrofe: “We had five years left to cry in”. E’ la batteria di Woodmansey a dettare le cadenze di “Five Years”, che parte come una ballata languida e si impenna in un magnifico crescendo, fino a esplodere nell’urlo isterico di Bowie. Cullato dalla rapsodia swing di “Soul Love”, l’ascoltatore viene poi proiettato in un sogno a occhi aperti: “Moonage Daydream”, l’Era lunare è arrivata e con essa il suo messia: “I’m an alligator, I’m a mama-papa coming for you/ I’m the space invader, I’ll be a rock ‘n’ rolling bitch for you”. Ziggy è un redentore, dunque, ma anche “una puttana”, il simbolo del meretricio del music-business. Esaltata dallo stridulo falsetto di Bowie, dalle distorsioni da capogiro della Gibson Les Paul di Ronson e da un assolo di sax al fulmicotone, è una cavalcata elettrica folgorante e l’apoteosi definitiva del glam-rock. Ziggy è l’uomo delle stelle, invocato nella ballata spaziale di “Starman”, una delle melodie più leggendarie di Bowie, nonché (forse) uno spunto per la trama del film di fantascienza “Incontri ravvicinati del terzo tipo” di cinque anni dopo. Il celeberrimo ritornello (“There’s a starman waiting in the sky/ He’d like to come and meet us/ But he thinks he’d blow our minds”) è un capolavoro, degno di stare al fianco dei classici dei Beatles. Perché come i quattro di Liverpool, Bowie possiede la rara dote di saper costruire da poche sillabe ciò che gli americani chiamano “hooks”, gli ami da pesca, capaci di catturare per sempre l’ascoltatore.
Il melodismo bowiano trionfa nella svenevole “Lady Stardust”, con le chitarre sature e le struggenti figure di piano di Ronson ad assecondare il canto da crooner del nostro. E’ un omaggio a Marc Bolan (nel demo originario si intitolava proprio “A Song For Marc”), ma le “Femme fatales emerged from shadows” riportano direttamente al Lou Reed di “Velvet Underground & Nico”. Porta invece la firma di Ron Davies l’unica cover del disco, “It Ain’t Easy”, sorta di space-country con un ritornello quasi gospel. A spezzare questo clima trasognato da musical anni Trenta provvedono un paio di scorribande proto-punk lanciate a velocità forsennata dai Ragni Marziani: “Hang On To Yourself”, che per ammissione degli stessi Sex Pistols ispirerà “God Save The Queen”, e “Suffragette City”, inno alle prostitute con tanto di esclamazione post-orgasmica (“Ohhh, wham bam thank you ma’am!”), che farà da colonna sonora alle pantomime sessuali di Bowie e Ronson sul palco dello Ziggy Stardust Tour.
Divenuto ormai “Star”, Ziggy può finalmente esser celebrato dal riff immortale della title track: la chitarra gracchiante di Ronson sottolinea la storia della stella che “strabuzzava gli occhi e agitava la chioma come alcuni gatti giapponesi”, ma che è finita in pasto a un’orda di fan-carnefici: “Facendo l’amore col suo ego Ziggy fu risucchiato nella sua mente/ come un messia lebbroso/ Quando i ragazzi l’hanno ucciso, ho dovuto sciogliere il gruppo”. Bowie si traveste da cantastorie appassionato, ma in realtà è dietro le quinte, a muovere i fili della sua creatura con aristocratico sarcasmo. Proprio come farà un anno dopo, quando, teschio di Amleto in mano, sceneggerà le gesta del suo “Cracked Actor” hollywoodiano in “Aladdin Sane”. La conclusione naturale del disco non può che essere un “suicidio del rock and roll”, consumato nel più teatrale dei modi, con una sigaretta in bocca (“Time takes a cigarette, puts it in your mouth”) e implorando un ultimo gesto d’affetto (“Gimme your hands, cause you’re wonderful”), che Ziggy mimerà negli show dal vivo andando incontro al pubblico. Gli Spiders From Mars allestiscono un altro terrificante crescendo, sfondo ideale per il canto allucinato e nevrastenico di Bowie. Sceneggiata da cabaret brechtiano, “Rock And Roll Suicide” è il commiato del disco e il brano con cui, il 4 luglio 1973, nel corso di un concerto all’Hammersmith Odeon di Londra, Bowie annuncerà la morte di Ziggy, tra le lacrime dei fan. I “dudes” resteranno a galla ancora per un po’ (a loro Bowie dedicherà anche l’inno generazionale “All The Young Dudes”, affidato ai Mott The Hoople), lo stesso Bowie si rifarà il trucco per un altro paio di dischi in quello stile (ottimo soprattutto “Aladdin Sane”), ma l’epopea glam si dissolverà rapidamente nella polvere di stelle del suo eroe.
Un paio di curiosità da segnalare: la copertina del disco ritrae Bowie con acconciatura stile Greta Garbo in una piovosa Heddon Street, a pochi metri da Regent Street, nel cuore di Londra; nella versione rimasterizzata su cd sono stati inclusi cinque bonus: “John I’m Only Dancing” e “Velvet Goldmine” (due eccellenti b sides di 45 giri), l’inedita “Sweet Head” e i due demo di “Ziggy Stardust” e “Lady Stardust”.
Irrimediabilmente datato, ma al tempo stesso foriero di tanto rock a venire, il melò di Ziggy Stardust abbatte gli sterili confini tra cultura “alta” e “bassa”. Perché Bowie – come ha detto lui stesso – “è insieme Nijinsky e Woolworth”. Chiunque negli anni abbia affrontato il rapporto tra performer e pubblico ha dovuto fare i conti con questo alieno in calzamaglia. “Era una creatura nata per essere idolatrata dai fan – rivelerà Bowie – la utilizzai servendomi dei semplici canoni del rock’n’roll”. Un prodotto di marketing, insomma, ma studiato fin nei minimi dettagli. Come un’opera d’arte.
Per dirla con le parole di Bowie, “pensavamo d’essere esploratori d’avanguardia, rappresentanti d’una forma embrionica di post-modernismo”. Un’arte “totale”, in cui la musica si sposa con il teatro, il music-hall, il mimo, il cinema, il fumetto, le arti visive, ma senza mai perdere di vista l’obiettivo finale: la celebrità. “Diventerò famoso” aveva giurato lo stesso Bowie prima della pubblicazione di “Ziggy Stardust”. Chi lo definisce “un disco commerciale”, dunque, non si sbaglia. Si sbaglia solo quando pensa che arte e commercio non siano compatibili. Un abbaglio che diventa colossale quando si pronuncia il nome di David Bowie.
Caludio Fabretti (Ondarock)