Programma ideato e condotto da Alberto Lorenzini
In onda tutte le sere alle 20e15 - 22e15 - 00e15
1. GABRIELLA FERRI "La paloma"
2. GABRIELLA FERRI "Grazie alla vita"
3. GABRIELLA FERRI "Cielito lindo"
4. GABRIELLA FERRI "Remedios"
5. GABRIELLA FERRI "Canto de' malavita"
Gabriella Ferri non fu solo la brillante interprete della canzone romana – e in seguito napoletana – che oggi i più ricordano, ma una mente creativa e famelica, capace di inglobare le istanze di più culture. Nel 1969 un suo brano tradotto in spagnolo, “Te regalo yo mis ojos”, ha grande successo in America Latina, spingendola a tenere una serie di concerti in quei paesi. Durante la permanenza in quel continente, Gabriella si avvicina alla canzone popolare locale e per anni ne coltiva la passione in privato.
Si arriva così all’11 settembre 1973, una delle giornate più importanti e tragiche del Novecento a livello storico-politico: il generale Augusto Pinochet prende il potere in Cile e mette il bavaglio a tutte le manifestazioni culturali del paese. Cinque giorni dopo il cantautore Víctor Jara viene orrendamente trucidato, insieme a molti altri dissidenti. Gli Inti Illimani, uno dei collettivi più rinomati di quella scena, si rifugiano in Italia, dove incontrano un periodo di notevole popolarità.
In questo riacceso interesse pubblico per le vicende dell’America Latina, Gabriella trova probabilmente la convinzione per affrontare il repertorio tradizionale di quei luoghi e decide di dedicargli il primo lato del nuovo album, “Remedios”.
Rispetto al repertorio italiano, che affronta con violenza e spudoratezza, la cantante si mostra protettiva verso i classici latini, cui riserva interpretazioni particolarmente delicate.
“La paloma”, habanera composta dall’autore spagnolo Sebastián Iradier nel 1860, durante la sua residenza a Cuba, è tranquillamente una delle migliori fra le centinaia di versioni esistenti, con il suono dimesso dell’armonica a bocca a fare da contrappunto nel ritornello e il tappeto d’orchestra nel finale.
“Cielito lindo”, standard dei complessi mariachi scritto nel 1882 da Quirino Mendoza y Cortés, si appoggia con cura sull’originario contesto sentimentale, mentre valenza ben più aspra assume l’altro classico messicano, “La cucaracha”, di cui viene rigorosamente scelto il testo del periodo rivoluzionario (1910-1917).
“La cucaracha, la cucaracha, ya no puede caminar, porque no tiene, porque le falta, marihuana que fumar”: il riferimento è a Victoriano Huerta, tiranno messicano con noti problemi di alcol e droga, personaggio fra i più odiati nella storia del paese. A dispetto della sua sovraesposizione e dell’utilizzo futile che spesso ne viene fatto, “La cucaracha” rimane uno dei brani che meglio abbia simboleggiato la ribellione di un popolo. Gabriella si mostra pienamente consapevole del peso storico di ciò che sta maneggiando e regala un’interpretazione di cristallina perfezione formale, grazie anche al superbo arrangiamento dei fratelli Guido e Maurizio De Angelis (fiati mariachi, percussioni, dinamiche spinte pianistiche).
Stupisce “La malagueña”, resa celebre nel dopoguerra da numi della musica messicana come Miguel Aceves Mejía e il Trío Los Panchos. Caratterizzata in quelle versioni da acuti interminabili, si ritrova abbassata di diversi toni e incastonata in una visione intimista per sola chitarra.
Con “Grazie alla vita” Gabriella scopre le carte, traducendo in italiano l’inno di Violeta Parra, figura leggendaria della musica cilena, morta suicida nel 1967 dopo aver a lungo sofferto di depressione: pur non essendo arrivata a vivere il regime di Pinochet, Parra è considerata l’iniziatrice della nueva canción chilena, i cui esponenti successivi avrebbero affrontato di persona il dittatore, pagando a caro prezzo il proprio coraggio. Per questo motivo Parra è vista a tutt’oggi come simbolo di speranza dal popolo cileno e per questo motivo assume un forte potere simbolico affrontarne il pezzo più famoso in quel preciso momento storico. È evidente nella voce di Gabriella la profonda convinzione di essere entrata in simbiosi col brano, come in una sorta di collegamento spirituale con l’autrice, di cui in seguito avrebbe condiviso la malattia.
Il capolavoro del primo lato – e uno dei vertici della musica italiana – è però la title track, testo e musica a firma Ferri, incisa direttamente in spagnolo, come fosse un brano di origine popolare. Il mimetismo è perfetto: un equilibrio irripetibile di poesia, melodia malinconica e arrangiamento garbato, col suono caldo e corposo del basso in primo piano. Obbligatorio riportarne la traduzione: “Remedios, piccola cara, ragazzina, bella, dolce, splendida piccola, rimasta così, seduta in riva al mare, e le mani piene di perle, il sole in fronte e il sorriso, bianca orchidea, anima e colomba, e la allegria, tu canti la consolazione, canti la speranza, tu canti Remedios. La tua storia ce la raccontò una volta Dio, il tuo fratellino con la sua chitarra, ti eri addormentata sotto la luna, eri felice, piccola Remedios”.
Il secondo lato torna alla romanità, senza cali qualitativi: “Semo in centoventitré”, col suo paraponzipò caciarone su andamento quasi ska, restituisce l’interprete irriverente degli album precedenti; “E dormi pupo dorce” è una ninna nanna di infinita tenerezza che si muove al passo di carillon e archi pizzicati; “Nina si voi dormite”, classico romano del 1901, già affrontato qualche anno prima, sfoggia un pacato arrangiamento per chitarra e tastiere.
Poi c’è “Canto de malavita”, che senza questa incisione sarebbe probabilmente andata persa per sempre: testo di scarsissima diffusione, autore anonimo, narra una vicenda carceraria con tono di disilluso abbandono. Gabriella ci abbina una melodia scritta di suo pugno, e quando nel ritornello grida disperata “E mo’ sto dentro, come te posso ama’?”, in quel momento si percepisce come, con ogni probabilità, nessuna ugola del dopoguerra abbia capito Roma quanto questa donna.
L’album raggiunge il secondo posto in classifica e chiude in maniera trionfale la stagione di massima popolarità dell’artista. L’anno successivo la morte del padre rompe il suo fragile equilibrio interiore e da lì in avanti il sentiero si fa sempre più tortuoso, fino alla prematura scomparsa, avvenuta il 3 aprile 2004.
Federico Romagnoli (Ondarock)