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Giorni di freddo e di gelo questi, ottimo clima per una delle poche verdure di stagione: la verza. Chi cucina sa bene che le verze devono aver preso le gelate per mantenersi più tenere alla cottura.
Conosciuta e apprezzata sin dall’epoca antica, per i romani la verza riepilogava in sé tutte le virtù e i sapori delle altre verdure. Nel corso dei tempi successivi godette di una fama straordinaria, non solo come alimento adatto a tutte le stagioni, crudo o cotto, ma anche come rimedio a una molteplicità di affezioni, compresa impotenza e ubriachezza. Nondimeno, la verza si prestava (e si presta) anche a essere scorta alimentare, conservata per fermentazione controllata e senza bisogno dei moderni frigoriferi, sotto forma di crauti.
Va da sé che un ortaggio così importante abbia generato nell’immaginario dei contadini una valenza simbolica particolare. Le foglie centrali del cavolo verza venivano assimilate al sesso femminile mentre il suo fusto rappresenta il membro maschile. Da qui la diffusa credenza, o modo di dire, che i bambini nascessero sotto i cavoli. Inoltre, al di là delle allusioni accennate, c’è da notare che alle contadine che estraevano le verze dal terreno, usando le mani con gesto roteante che staccava la testa del cavolo da quella sorta di cordone ombelicale che è la sua radice, veniva popolarmente dato il nome di “levatrici”.
Le verze hanno costituito per secoli un caposaldo alimentare, immancabile materia prima di zuppe e minestre, da sole o accompagnate da altri ingredienti come la carne di maiale o, meglio, le parti meno nobili del maiale quali cotenne, piedini, orecchie, costine e testina, come nella ricetta della cassoeula lombarda.
Ci sono due versioni diverse sull’origine dei questo piatto. La prima narra che la cassoeula fosse cucinata per la celebrazione del culto popolare di Sant’Antonio abate, festeggiato il 17 gennaio. Questa data segnava la fine della macellazione dei suini e in questo periodo le famiglie contadine disponevano di diversi tagli dell’animale. La seconda tradizione racconta invece che, durante la dominazione spagnola di Milano, un ufficiale si innamorò perdutamente di una bella popolana e per conquistarla le insegnò come cucinare la carne di maiale in combinazione con la verza. La donna, a servizio in una nobile famiglia meneghina, si ritrovò un giorno senza alimenti prelibati nella dispensa e, per non perdere il posto di lavoro, ripropose la ricetta dell’ufficiale spagnolo: il connubio della verza con puntine e cotenne di porco piacque così tanto che non solo la ragazza salvò il proprio posto di lavoro, ma il piatto divenne rapidamente uno dei più rappresentativi e popolari della Lombardia.
Volendo però concludere rimanendo a Mantova, possiamo accennare a quanto la marchesa Isabella d’Este fosse ghiotta di verze. Cosa un po’ curiosa se si tiene conto che le tavole nobiliari del Rinascimento sfoggiavano perlopiù tripudi di carne. In una sua lettera del 1519 al fratello Alfonso I, duca di Ferrara, così scriveva: “Mandai a Vostra Eccellenza altre volte alcune semenze di verze per mangiar in salatta. Hora gli mando de le verze proprie, acciò che la ni possa far la prova. Il modo di acconciarle è questo: bisogna tagliar via quello torso duro, poi il resto metterlo a bollire in acqua per un pochetto, sino a tanto sia divenuta la verza alquanto tenera; poi levarla di l’acqua et conciarla con olio et aceto, in foggia di salatta. Vostra Eccellenza vedderà poi se gli piacerà questa stranieza”.
Buon appetito e a risentirci la settimana prossima!
@Convivium_RB