Distrazioni
Un saluto e bentrovati a tutti gli ascoltatori!
La differenza tra cibo “fast” e cibo “slow” viene spesso intesa solo in termini di tempo e ritmo: velocità contro lentezza. Questo approccio è tuttavia limitante, se non fuorviante. La differenza basilare tra il “fast food” e il cosiddetto “slow food” dovrebbe tuttalpiù stare nella propensione, o nel disinteresse, a cucinare e gustare il cibo con una certa cura.
La cura – per preparare, offrire e gustare – non richiede necessariamente tempo. Richiede, al contrario, attenzione: nella scelta degli alimenti, nei metodi di cottura, nell’abbinamento dei sapori, nelle forme di presentazione dei piatti e, non ultimo, nella scelta della compagnia con cui condividere il pasto. L’attenzione non è antagonista del tempo e della velocità, bensì della fretta e della distrazione.
Fretta e distrazione possono essere ingredienti tanto di un panino ingurgitato per strada quanto di un pranzo consumato al ristorante. Sappiamo bene che i panini non sono tutti uguali, come pure non lo sono i ristoranti. Addirittura le mense o i vassoi serviti negli aerei sono diversi tra loro. La bontà di una pietanza non c’entra col tempo e con la velocità. Dovremmo piuttosto affermare che esiste cibo preparato con attenzione e cibo figlio della disattenzione.
La distrazione al cibo non è solo frutto di occasionali necessità o di propensioni individuali. Qualcuno sostiene che nell’Occidente esista una vera e propria “cultura della distrazione”, di matrice cristiana, legata alla diffidenza nei confronti del corpo e all’abitudine di identificare il piacere con il peccato. Tutto girerebbe intorno alla raccomandazione di non fare del cibo un oggetto di piacere, a non dedicargli troppe attenzioni, a vivere “distrattamente” l’esperienza del mangiare.
La tradizione cristiana, pur non essendo univoca a tal riguardo, ha in ogni caso trasmesso con forza questo messaggio, condizionando a lungo il nostro rapporto col cibo. Tra le vicende narrate nelle storie dei santi ce ne sono alcune che rappresentano in maniera evidente questa “distrazione” cristiana verso il cibo.
L’abate Pior, per esempio, che cercava l’ascesi nella solitudine del deserto, ci racconta che “mangiava passeggiando”. Quando qualcuno gli chiese il perché di quel suo insolito comportamento, egli rispose: “Voglio che il mangiare sia un’occupazione superflua”. A un altro che gli fece la stessa domanda, disse: “Voglio che, mentre mangio, la mia anima non provi un godimento materiale”. L’abate si imponeva, insomma, di nutrirsi cercando di ingannare il proprio corpo, senza fargli accorgere che stesse mangiando, scongiurando il rischio di provarne godimento.
Un altro eremita, a nome Pastore, quando lo chiamavano a tavola ci andava a malincuore, contro la sua volontà, a volte addirittura piangendo. Il monaco Lupicino, invece, tentava di aggirare le papille gustative passando il nutrimento per altre vie. Altri ancora si immergevano talmente nel pensiero di Dio che non si ricordavano neppure se avevano mangiato o no, sostenendo che l’avevano fatto anche se così non era.
Il corpo è però un impietoso esattore. E siccome mangiare è necessario, gli asceti si proponevano almeno di farlo senza provarne piacere. Separare il piacere dalla necessità: questa era la sfida di quegli uomini, definita “impossibile” da San Girolamo, perché il cibo mette inevitabilmente in moto i meccanismi della sensorialità e la consapevolezza del godimento che, una volta innescata, si tende a prolungare il più possibile.
“Fast food”, contrapposto a quello “slow”, è quindi qualcosa che va al di là dei concetti di velocità e di tempo. Ha a che fare con il non scegliere, il non valutare, il non distinguere. “Fast” è il non fare attenzione al cibo, il consumarlo con distrazione, quasi che non si stesse mangiando. Forse non è un caso che, in inglese, “fast” è anche il digiuno.
Buon appetito e a risentirci la settimana prossima!
@Convivium_RB
Alcune notizie da: M. Montanari, “Il riposo della polpetta”, Bari 2015