ANDREA COSSARIZZA-SARS-CoV-2: COSA SAPPIAMO, COSA DOBBIAMO SAPERE Facciamo il punto sulla pandemia
La pandemia è stata per tutti una situazione nuova, che ha sconvolto le nostre realtà quando a marzo 2020 ci è stato comunicato il primo lockdown, dando inizio ad una serie di eventi che mai avremmo pensato possibili: zone colorate, divieto di lasciare la nostra abitazione, ma soprattutto contagi, che inizialmente non si riuscivano a tenere sotto controllo. Come noi, anche altri milioni di persone nel mondo hanno dovuto cambiare drasticamente e improvvisamente le proprie abitudini. Ma di cosa si tratta? COVID-19 è una malattia infettiva causata dal virus denominato SARS-CoV-2 appartenente alla famiglia dei coronavirus. Su essa si sono basati numerosi studi, vista la necessità di trovare una cura o, perlomeno, un vaccino in grado di contenere il diffondersi della malattia. Gli effetti dell’infezione da SARS-CoV-2 sono molteplici. I sintomi possono essere più comuni, come febbre, tosse, perdita del gusto o dell’olfatto, o più gravi, come difficoltà respiratoria o fiato corto, difficoltà di movimento e dolore al petto. Un ulteriore effetto del SARS-CoV-2, invisibile però ai nostri occhi, è stato individuato dal gruppo di lavoro del professor Andrea Cossarizza, con la dottoressa Sara De Biasi e il dottor Domenico Lo Tartaro di Unimore, questa volta sulle cellule che producono anticorpi quali i linfociti B. Il gruppo di ricerca di Unimore ha scoperto che nel sangue periferico dei pazienti con polmonite COVID-19 diminuiscono in maniera significativa i linfociti B. Al contrario, nel sangue si trovano in quantità anomala i plasmablasti, cellule immature che dovrebbero essere invece nel midollo osseo ed entrano in circolo a seguito dell’importante attivazione immunitaria.
Professor Cossarizza, come sappiamo, il processo che porta a una scoperta nell’ambito della medicina è lungo e laborioso, specialmente in questa situazione, con l’arrivo di un virus sconosciuto. Con quali ritmi e in quali condizioni di pressione ha lavorato insieme al suo team, consapevoli dell’emergenza in corso? Dottor Cossarizza: Difficile rispondere; in realtà abbiamo attuato tutta una serie di procedure ben prima che arrivasse il virus. Io sono grato a molti amici con cui ho parlato a gennaio di cosa stava succedendo in Cina e grazie a questi contatti era chiarissimo, per me, che sarebbe scoppiato questo dramma. Il professor Massimo Galli, mio vecchissimo amico, mi aveva detto che avremmo visto qualcosa di impensabile, a gennaio, quindi io con Sara (la dottoressa Sara de Biasi nds.) e gli altri ragazzi del gruppo, ho immediatamente messo in piedi tutte le misure per poter lavorare con materiale infetto o proveniente da pazienti infetti nel minor tempo e nel miglior modo possibili. Nel frattempo, mi ero anche informato su cosa volesse dire lavorare con un Coronavirus dai miei colleghi inglesi o americani, che hanno lavorato con SARS e lavorano tutt’oggi con MERS, presente in Medio Oriente. Siccome noi lavoriamo con i virus da molti anni (HIV, epatite ed altro), sostanzialmente il SARS era il meno preoccupante, bastava trattare il sangue come sempre, considerando ogni campione come pericoloso quindi, a dire la verità, non abbiamo avuto nessun problema, se non il panico della gente attorno. Noi abbiamo lavorato dal primo giorno ad oggi, non ci siamo mai fermati, e i risultati poi si vedono: siamo stati il primo gruppo in Europa a descrivere le risposte immunitarie, la risposta dei linfociti T, dei linfociti B. Poi abbiamo pubblicato un lavoro il 19 marzo, quindi immediatamente, uscito su una rivista importante e che è stato scaricato da 25 000 persone in sole tre settimane, siamo andati a fare un webinar per Science il 30 aprile, insomma abbiamo portato il nostro gruppo a livelli piuttosto alti. Tutto questo perché ci eravamo organizzati, sapendo quello che poteva succedere, ma non abbiamo fatto niente di più di quello che sappiamo fare; Sara? Dottoressa de Biasi: Siamo stati fortunati, nella sfortuna di questa pandemia, perché abbiamo avuto la possibilità di fare veramente il nostro lavoro: capire da zero qualcosa mai studiato prima. Quindi eravamo tutti fortemente motivati per capire quali potessero essere le modificazioni del sistema immunitario nei pazienti affetti da Covid 19. Questo virus ha riacceso i riflettori sulla ricerca. Dottor Cossarizza: La fortuna è stata disporre già di tutte le tecnologie necessarie perché lavoriamo su HIV da 30 anni, su altre malattie virali e sulla risposta immunitaria. Dottoressa de Biasi: C’era comunque timore, non conoscendo nulla di questo virus, ma non panico, perché chi è competente non va in panico. Sono usciti quasi subito studi che provenivano dalla Cina, che ci hanno permesso di stare tranquilli. Un po’ di timore quindi c’è ma, se viene gestito, porta a grandi risultati.
Il covid-19, oltre a ripercussioni sulla salute e sullo stile di vita delle persone, ha causato anche conseguenze psicologiche importanti e ha portato la popolazione alla visione dei medici e degli operatori sanitari come eroi. Anche voi però siete esseri umani e sicuramente avrete risentito di questa situazione nuova per tutti, con l’aggiunta del senso del dovere di trovare una soluzione a questa emergenza. Quali sono stati gli effetti psicologici che la pandemia ha avuto su di voi, che vi siete trovati a gestirla in buona parte? Dottoressa de Biasi: Inizialmente, da parte di persone che lavoravano nel nostro settore, abbiamo visto scoraggiamento e impotenza; poi si è cercato di gestire la situazione. La gestione che c’è stata in laboratorio, ovviamente, è arrivata dall’alto quindi le lodi vanno a chi ha diretto tutto il team: noi abbiamo agito, ma le direttive venivano dall’alto. Solo se l’allenatore è bravo la squadra risponde bene. Dottor Cossarizza: Io avevo un po’ di esperienza: negli anni ’80, quando, studente, ero a New York, ho visto i primi casi di HIV, nel luglio-agosto ’81. Quando sono tornato in Italia ho iniziato a lavorare con i pazienti HIV e il primo campione di sangue che ho avuto in mano, nell’85-86, mi ha fatto tremare, perché allora era una malattia mortale. Quando conosci una malattia poi sai come comportarti, ma l’HIV in quegli anni non era ancora ben studiato; si sapeva solo che il sangue era una delle vie di trasmissione. Quindi, grazie all’esperienza maturata nei laboratori del gruppo di malattie infettive a Modena, dove ho lavorato molto alla fine degli anni ’80, non era particolarmente difficile per me dire ai ragazzi del mio team che cosa dovevano fare, spiegare loro come comportarsi, perché io non avvertivo alcun pericolo e se il capo è tranquillo trasmette tranquillità anche alle altre persone. Più che altro il problema è stato lavorare nei laboratori con il distanziamento e le altre misure da adottare però, dal punto di vista logistico, abbiamo parecchio spazio e poi la gente era sparita nei nostri 5 piani. Quindi psicologicamente è stato un po’ pesante ma siamo allenati: mia moglie è direttore della clinica di malattie infettive e ordinario di malattie infettive, per cui c’è stato uno scambio interessante. Però credo che le ripercussioni psicologiche si presenteranno più avanti, quando finirà. Per ora lo stress c’è ancora; i ragazzi comunque lavorano bene. Io poi sono diventato una persona a cui i giornali, le tv e la sanità pubblica fanno riferimento, quindi il carico di responsabilità è un po’ pesante.
[Valentina Vitali]