The Mahavishnu Orchestra with John McLaughlin
“The Inner Mounting Flame”, 1971 (Columbia)
di Giorgio Signoretti
All’alba degli anni Settanta, decennio dalle eredità musicali impegnative e dalle promesse difficili da mantenere, John McLaughlin poteva già esibire un pedigree di prima grandezza nel mondo di un jazz che, grazie alla singolare alleanza tra “free” e rock, stava bruscamente cambiando pelle.
La New York multilinguistica e ricombinativa degli anni Sessanta e Settanta, raccontata da Benjamin Piekut in Experimentalism Otherwise o da Will Hermes in Love Goes to Buildings on Fire, non amava neoclassicismi o belle calligrafie, amava invece le sintesi urgenti e spietate. L’urlo di Ornette e Ayler, l’elettricità di Dylan o Miles, le glosse sul male quotidiano di Lou Reed. Tutto, nella città di Charlie Parker, di Pollock e degli Irascibili, ma non il già sentito.
McLaughlin, da quella New York che risputava chi non aveva visione, era stato adottato senza esitazioni nel 1969 di aria e fuoco di Woodstock: era stato parte attiva della febbrile trance elettrica di Bitches Brew e della cinetica potenza dei Lifetime di Tony Williams.
Miles Davis, che stravede per i graffi elettrici della sua chitarra, lo incoraggia poi a formare una propria band. E così sarà. La relativa fama di cui McLaughlin gode già nel 1971 gli permette di attrarre come un magnete piuttosto potente i migliori musicisti in cerca di avventura, ma quelli dei suoi sogni (Tony Levin, futuro motore dei King Crimson, Larry Young e Jean-Luc Ponty) non sono disponibili. “Ripiega” sul bassista Ricky Laird, già compagno di avventure jazzistiche a Londra, sul tastierista cecoslovacco Jan Hammer, pianista insoddisfatto nella big band di Buddy Rich e sul sorprendente violinista chicagoano Jerry Goodman. L’unica scelta originale è quella del prodigioso batterista panamense Billy Cobham, incontrato durante le session di Bitches Brew.
L’alchimia tra i musicisti è immediata. L’esordio, dopo soli cinque giorni di prove intensive sugli impossibilmente complessi materiali di McLaughlin, è folgorante. Il 21 luglio la neonata Mahavishnu Orchestra apre per (sic) John Lee Hooker e il 14 agosto la band registra in un solo giorno (ancora sic) “The Inner Mounting Flame”, un disco fondamentale che rispecchia, anche nell’immediatezza del suono, questo stato di grazia.
La lezione è quella di Miles e Trane, o anche quella in apparenza più tranquilla di Bill Evans con La Faro e Motian: l’estetica del leader con accompagnatori è ormai insufficiente a rappresentare lo Zeitgeist di quegli anni frenetici e comunitari: i musicisti si devono muovere su un piano di parità e l’interazione (o “interplay”) deve essere radicale e strutturale. È un’idea di completa coralità rafforzata da una sua parallela affermazione nel campo non più così separato del rock: nei Cream, in Hendrix e nei Pink Floyd di Syd Barrett forse ancor più che nei mondi splendidi dei demiurghi Zappa e Fripp. Ma è comunque ai suoni (e ai volumi!) del rock che la musica totale della Mahavishnu si riferisce. I santuari della Woodstock Nation sono espugnati, e la parte più curiosa di un universo giovanile non più così eterogeneo ormai vede nel “jazz-rock” una naturale prosecuzione delle avventure psichedeliche.
Mai quella tribù aveva sentito un disco in studio suonare con la feroce immediatezza di un concerto. Chitarra, violino e tastiere, a tratti non distinguibili, si arrampicano su tempi dispari e armonie aperte, frustano orecchie incredule e chiamano le percussioni a un dialogo ben al di sopra di quelli che all’epoca erano considerati i massimi sistemi dell’improvvisazione.
Le composizioni tracciano strade: il 6/4 di Meeting of The Spirits, il 7/4 di Dawn, il serrato 4/4 di Noonward Race, piece de resistance dei concerti, il 3/4 di A Lotus on Irish Streams, il 10/8 maestoso di Dance of Maya, all’epoca trasmesso a ripetizione da Per Voi Giovani. A concludere il disco piomba il vertiginoso Awakening, con le tonalità degli assoli stabilite dal segno zodiacale dell’improvvisatore. Dopo le danze dionisiache su tempi di metronomo impossibili, il ritorno al tema dai chiarissimi riferimenti indiani.
Già Clapton, per il suono seminale della sua Les Paul del 1966, pensava a Bismillah Khan. E McLaughlin stesso era stato introdotto a quel mondo dal grande chitarrista Big Jim Sullivan. Ma, con l’alleanza tra Ravi Shankar e George Harrison, “quel suino” è uno dei codici delle tribù hippy di Londra o di Monterey. E con la Mahavishnu Orchestra, reso urbano dall’elettricità, diventa anche uno dei suoni di New York. Potremmo forse già parlare di World Music o, nella scia di Coltrane e Pharoah Sanders, di World Jazz. Ma forse è più conveniente evitare troppe categorizzazioni.
Il violino elettrico, grazie a Ponty, Sugarcane Harris e ora anche a Goodman, conosce una fioritura che lo porterà, con Scarlet Rivera, fino ai palchi della Rolling Thunder Revue di Bob Dylan. Il prog di tutto il mondo non potrà per qualche anno fare a meno di quel suono. Anche in Italia i giovani talenti in cerca di ispirazione e di energia prenderanno nota: il cantautorato rock di Finardi con Lucio Fabbri, gli inarrivabili Area, la PFM con Mauro Pagani.
Della chitarra di McLaughlin, con quel feroce staccato e quei bending sovrannaturali, è inutile parlare: diventerà banco di prova per musicisti diversissimi e dalla poetica già personalissima, come ad Jeff Beck o Terje Rypdal.
Gli impasti e la tavolozza della Mahavishnu sono ormai nell’aria, ma quell’esplosione di energia creativa che durerà solo un paio d’anni rimarrà insuperata. Della prima irripetibile formazione restano, come scolpiti, i due dischi in studio (Birds of Fire il secondo) e un pugno di impressionanti registrazioni dal vivo. Una terza non soddisfacente seduta di registrazione farà dire ai cinque che la benefica e miracolosa esplosione che aveva mandato schegge di luce dovunque aveva esaurito la sua energia.