Iron Maiden
“Iron Maiden”, 1980 (Emi)
Heavy/Metal
di Marco Caforio
Per i profani della musica, il producer potrebbe apparire figura meramente secondaria o, ancor peggio, ruolo dalle mansioni vieppiù nebulose.
Non spifferatelo a Steve Harris, bassista, fondatore e leader degli Iron Maiden, che da oltre 40 anni si strugge per i suoni del suo primogenito.
“Iron Maiden” infatti, disco d’esordio della Vergine immesso sul mercato nell’ormai remoto 1980, non vedeva ancora seduto dietro la consolle il compianto Martin Birch, che avrebbe donato alla band britannica, a partire dal successivo “Killers”, fogge sonore di infinito pregio. A questo giro, ahimé, la scelta ricadde su Will Malone (noto dalle nostre parti per la collaborazione con Gianna Nannini), scelto dalla casa discografica senza nemmeno consultare il gruppo.
I risultati, è proprio il caso di dirlo, sono lì da sentire.
Si badi: parliamo di un’opera prima semplicemente folgorante. Un concentrato mai udito prima di rabbia urbana, brillantezza melodica, urgenza esecutiva e classe compositiva cristallina. Al tempo stesso, soffermandosi sull’impasto delle chitarre e sulla carenza di nitidezza che affligge il drumming, non si può che coltivare qualche rimpianto.
Tanto vale mettersi il cuore in pace, e gioire comunque di fronte a episodi illuminati come l’opening track “Prowler” (che ridefinisce il concetto stesso di “esplosione d’energia”), la successiva “Remember Tomorrow” (se non vi viene la pelle d’oca ascoltando l’interpretazione del singer Paul Di’Anno è grave, sappiatelo) o “The Phantom of the Opera” (ancor oggi gemma d’ineguagliabile valore).
In realtà ogni singolo brano del platter meriterebbe menzione d’onore, sia esso riconducibile al filone più irriverente e frenetico (la conclusiva “Iron Maiden”, sempre presente ad ogni concerto dei Nostri, o la contagiosa “Running Free”, con quel pattern ritmico iniziale debitore di Gary Glitter), sia a quello più intimista e riflessivo (la stralunata psichedelia di “Strange World”, il rallentamento centrale dell’insolente “Charlotte the Harlot”).
La tracklist fila a meraviglia anche in virtù del fatto che “Iron Maiden” può, a tutti gli effetti, venir considerato una sorta di “best of”, in cui Dave Murray e soci rielaborano in studio i migliori pezzi suonati per anni in dozzine di polverosi locali di Londra e 1 dintorni. La dura gavetta, per una volta, ha pagato i dividendi, e si è tradotta in un album immortale e dall’artwork iconico, con quell’Eddie allucinato che si sarebbe di lì a poco tramutato nella mascotte zombie più famosa della storia del rock.
Ed è esattamente di storia del rock che parliamo qui, al netto di una produzione non all’altezza. D’altro canto, come ebbe a dire Confucio, meglio un diamante con un’imperfezione che un sasso senza.