Arte e scienza: creatività e razionalità, libertà espressiva e rigore. In pratica due realtà opposte. Ma è davvero così? Se si riavvolge il nastro del tempo indietro di qualche secolo la divisione sparisce e queste due espressioni culturali appaiono strettamente legate. Con la natura e le scoperte scientifiche si voleva stupire, visitare una mostra o una collezione era come assistere ad uno spettacolo (non esistono forse i teatri anatomici?), per questo i musei di scienze naturali erano chiamati Wunderkammer, camere delle meraviglie. Osservare ciò che era conservato in questi luoghi era in effetti l’unico modo per scoprire le specie che vivevano in posti lontani e irraggiungibili oppure per studiare da vicino gli organismi che popolavano il proprio territorio così da comprenderne l’anatomia e le caratteristiche più interessanti. Forse è difficile capire il fascino e l’importanza di questi luoghi espositivi ora che la tecnologia permette di guardare foto e video di animali e piante nel loro ambiente rimanendo a migliaia di kilometri di distanza, eppure i musei naturalistici non hanno esaurito la loro funzione si sono solo reinventati. Adesso il loro ruolo è raccontare la storia delle conquiste scientifiche del passato, testimoniare l’esistenza di specie animali e vegetali estinte o di habitat cancellati dalle modifiche antropiche e soprattutto riaccendere la curiosità nei confronti della scienza e della natura, che proprio perché accessibili hanno perso la loro meraviglia. Elena Canadelli, professoressa associata presso l’Università di Padova, responsabile scientifica del Museo Botanico della stessa università e collaboratrice del progetto “National Biodiversity Future Center”, per il quale coordina la digitalizzazione delle collezioni naturalistiche italiane, parlerà dell’evoluzione dei musei naturalistici e di come le teorie scientifiche ma pure le tecniche espositive siano cambiate nel tempo.
Professoressa Canadelli, nei musei naturalistici sono conservate collezioni storiche, quindi vulnerabili, o elementi rari e di grande valore che evidentemente non possono essere manipolati dai visitatori; d’altro canto poter toccare ciò che si vede rende l’esperienza al museo più immersiva e coinvolgente e avvicina soprattutto i bambini e i ragazzi al mondo scientifico. Secondo lei come si possono coniugare queste due esigenze apparentemente opposte?
I musei di storia naturale oggi, ma anche quelli di scienza e tecnologia, stanno tentando proprio di integrare questi due approcci. Di sicuro il potere che ha l’oggetto storico, originale, è unico quindi molte delle esposizioni (penso al Museo di Storia Naturale di Londra) sono imperniate sulla collezione, sull’oggetto originale, sul raccontare le storie di persone, di modi di fare scienza, di collezionare e della natura stessa, che l’oggetto ci dice. D’altra parte dagli anni Sessanta in poi, si è affermato anche il science center, una modalità interattiva dove si utilizzano degli exhibit che non sono originali ma che aiutano la comprensione, in questo caso della storia naturale, delle scienze naturali. I musei che, a mio modo di vedere, integrano queste due tendenze al meglio hanno maggior successo; si cerca il bilanciamento (degli esempi sono il Museo Botanico dell’Università di Padova, oppure Kosmos dell’Università di Pavia) tra l’interazione, l’hands-on, il metterci le mani, il fare qualcosa anche con dei modelli e l’osservazione del reperto originale, che viene esposto e che quindi in qualche modo pone il visitatore in contatto con un’epoca, con delle persone e con una natura che non ci sono più. Avere il giusto equilibrio tra questi due elementi non è semplice ma i musei che sono in grado di farlo riescono ad intercettare pubblici diversi. È possibile questo equilibrio, bisogna ragionarci molto e non bisogna né eccedere con troppi oggetti in esposizione ma nemmeno con troppi interattivi, troppi stimoli anche digitali che non permettono l’apprendimento concreto. Il mix di tutti e due, quindi far dialogare l’oggetto con l’interattivo, consente una comprensione maggiore, quindi questa è la direzione.
Al MUSE di Trento è stata dedicata molta attenzione anche alla struttura architettonica che ospita il museo stesso; Renzo Piano ha in effetti ideato un edificio che richiama l’ambiente montano circostante e che, con i suoi 5 piani e uno spazio centrale, è pensato per esaltare lo sviluppo del percorso espositivo. Quanto, secondo lei, l’architettura può influire, in positivo ma anche in negativo, sull’efficacia comunicativa di un museo?
L’architettura è almeno dall’Ottocento uno dei punti fondamentali perché proprio quando si affermano i grandi musei di storia naturale nazionali gli Stati o le città investono su imponenti architetture, che ne diventano un elemento caratteristico. Imponenti architetture significa vere e proprie cattedrali, con elementi decorativi, ornamentali, statue, simbologie, quadri; quindi non solo l’edificio ma in qualche modo l’ornamento dell’edificio diventa importante (Vienna, Londra ma anche alcuni padiglioni di Parigi hanno questa impostazione). Il rapporto è quindi molto profondo e articolato nel tempo. Se però si punta solo sull’edificio e non su un percorso espositivo, o comunque si lascia il potere solo agli architetti, si corre il rischio di avere una mancata articolazione tra forma e contenuti. I grandi edifici, o i grandi architetti che firmano questi progetti, sono molto importanti perché danno anche visibilità alla struttura però d’altra parte non bisogna trascurare che tutto il percorso della narrazione e quello espositivo devono essere pensati insieme. Quindi mantenere un’interazione, un rapporto tra i curatori (che possono essere zoologi, botanici, paleontologi ma anche antropologi, storici della scienza, per esempio) e il comunicatore, l’architetto, il designer è la chiave del successo, secondo il mio modo di vedere un museo. Se uno sorpassa l’altro si crea uno squilibrio quindi si ha un bellissimo edificio che però non riesce a vivere.
Lei si occupa delle digitalizzazioni delle collezioni naturalistiche italiane. Secondo lei quanto la tecnologia può aiutare i musei a progettare exhibit più accattivanti e ad aumentare il proprio bacino di pubblico?
Sicuramente è un grande aiuto perché colma dei pezzi della narrazione. Pensiamo appunto alla visualizzazione del tempo profondo (concetto molto complesso) oppure alla possibilità di ricreare forme viventi che non esistono più, che non possiamo comunque vedere. Quindi la tecnologia sta avanzando molto sia digitalmente sia in modelli più classici, come le stampanti 3d. Credo che sia di grande aiuto se supportata sempre anche da un confronto col reperto originale o dalla narrazione della storia: la tecnologia di per sé non dice nulla ma se viene calata in un contesto narrativo specifico e viene fatta dialogare con altri modi di parlare della natura, della storia naturale, allora è efficace. Però la mia raccomandazione è non credere che mettere un elemento digitalizzato e tecnologico sia di per sé qualcosa che faccia la differenza; questo è vero solo se viene inserito all’interno di un sistema narrativo sempre più complesso.
[Valentina Vitali]