Blind idiot God
“Blind Idiot God”, 1987 (SST)
math-rock
di Francesco Nunziata
Con i Blind Idiot God, la violenza catartica dell’hardcore venne convogliata all’interno di partiture strumentali fortemente ispide e dissonanti, capaci di gettare un ponte tra generi apparentemente distanti tra di loro, quali lo space-rock, il reggae, l’heavy-metal e il funk. Il risultato di questa sintesi epocale (probabilmente, uno dei primissimi germogli di post-rock) è un “wall of sound” acidissimo di math-rock (di cui sono i padri putativi), dove scorrazzano indisturbati i tre strumentisti: Andy Hawkins (chitarrista “hendrixiano”, rumorista e finanche dedito alla battuta in levare), Gabriel Katz (con le sue cupe e rocciose linee di basso) e Ted Epstein (dal drumming schizofrenico e tempestoso).
L’esordio sulla lunga distanza avvenne nel 1987 con un album omonimo uscito su Sst (una delle più grandi etichette indipendenti della storia del rock). Quell’album (che sarebbe restato il loro capolavoro) rappresentò una scossa tellurica per la scena alternativa americana. Tuttavia, la fama non avrebbe mai arriso ai tre giovincelli del Missouri. La loro proposta era troppo lungimirante. Un crossover tanto geniale quanto paradossale e spericolato.
La terribile carica cacofonica dell’iniziale “Stravinsky/Blasting Off” (introdotta da una scheletrica figura di basso) subisce un ulteriore trattamento adrenalinico grazie alle impetuose ascensioni della chitarra. Il sottofondo è carico di forza esplosiva, saturo di riverberi e di feedback, come nella successiva “Shifting Sand”, dove il tumulto si innalza a mille piedi da terra grazie a un’improvvisa spirale lisergica di chitarra e a un gioco spaventoso di contrappunti. Il collasso viene evitato grazie al disperdersi della foga in un tumulto più contenuto, quasi ascetico (“Tired Blood”). Ma le sventagliate di chitarra e il drumming parossistico di “Wide Open Spaces” dicono che non è ancora tempo per gettare la spugna. L’impressione è quella di guardare una parete altissima, dove non ci sono finestre, e dove il sole non può fare altro che colare come un magma densissimo. La tensione che questi brani lasciano accumulare è spesso davvero intollerabile. D’altra parte, non lo è anche un Dio idiota e cieco? L’impressione, allora, è che il messaggio sia altamente pessimista, anche se non privo di connotati ribelli e “barricaderi”. “Subterranean Flight” vive del conflitto apocalittico tra gli echi lontanissimi del basso, le digressioni chitarristiche lanciate a folle velocità dentro un groviglio di ritmi maciullanti e le stasi scheletriche in cui quel conflitto sembra, di volta in volta, placarsi e dissolversi. L’heavy-metal di “More Time” è subdolamente “mainstream”, ma non tanto da giustificare un suono composto e godibile. Dopotutto, si tratta sempre di una loro personale versione dell’heavy-metal… Il funk algido e brumoso di “Dark And Bright” conferma la loro straordinaria capacità di secernere variazioni su variazioni al di sopra di uno pseudo-tema di base. Poi, quello che non ti aspetti: ovvero, il trittico finale. Sublime e onirico planare lungo riconoscibilissime traiettorie “dub”.
La tensione è scomparsa. Vi è qualcosa di magico, ora. La battuta in levare trascina gli strumenti in un vortice quasi minimalista, fatto di echi sornioni, tracce psichedeliche e slabbrature dilatate all’infinito (“Wise Man Dub”). La dilatazione è ancora più evidente e “fisica” in “Stealth Dub”, con veri e propri voli pindarici della sei corde. I battiti sordi della batteria sembrano frantumare ripetutamente queste trame avvolgenti e sensuali. Il monolite dissonante delle tracce precedenti è stato sventrato. Restano paesaggi malinconici, autunnali. Il suono è, in fondo, gelido, molto più scarno. Trafigge il cuore e la mente. La rabbia è diventata rassegnazione. Attinge da un’anima in frantumi le ultime forze. “Raining Dub”, invece, è ancora più sperimentale. Le frattaglie reggae della chitarra subiscono un eccezionale trattamento “visionario”. E’ un delirio fatto di riverberi e di armonici brulicanti, ormai lontanissimo dai loro infernali baccanali.
Pur essendo una band composta da musicista eccezionali, i Blind Idiot God hanno sempre tenuto fede alle loro radici, relegando il tecnicismo in un angolino buio, e concentrandosi su di una proposta musicale capace di assorbire i virtuosismi all’interno di una sintesi più alta, fatta soprattutto di emozioni crude e veraci. Anche per questo, il loro nome resterà scolpito per sempre negli annali del rock. Non importa come.
Recensione tratta da Ondarock