Death Cab For Cutie
“Transatlanticism”, 2003 (Barsuk)
Indie-Rock
di Fabio Guastalla
Fa strano riascoltare per l’ennesima volta le prime parole intonate da Benjamin Gibbard nel quarto album dei Death Cab For Cutie, e viene naturale chiedersi se, al netto dei mille significati impliciti in quelle righe (e del contesto in cui sono inserite), in fondo non si tratti che di sana, opportuna scaramanzia – come quando capisci di essere giunto alla soglia di un momento cruciale e cerchi di minimizzare per paura di vedere le speranze andare in frantumi. Risulta quantomeno complicato, infatti, immaginare la sua vita a un punto morto all’alba di quel 2003 che ne cambierà per sempre il destino artistico non con uno, ma con due album che escono praticamente in simultanea: il primo in senso cronologico è “Give Up”, esordio del progetto The Postal Service, licenziato in febbraio per Sub Pop; l’altro è ovviamente “Transatlanticism” e vede la luce in autunno per l’altra label di Seattle, Barsuk. Entrambi sono deputati, con modalità e un peso specifico differenti, a indicare nuove possibili vie a una scena indipendente che già sta iniziando a rivolgere lo sguardo soltanto al passato. La domanda, però, resta: davvero Gibbard era – del tutto o anche solo in parte – inconsapevole delle potenzialità del repertorio che aveva tra le mani, un repertorio in procinto di vestire il ruolo di manifesto musicale di un’intera generazione e di stato dell’arte dell’indie-rock del decennio?
All’epoca i Death Cab For Cutie sono già una realtà piuttosto affermata nel loro ambito, e possono vantare un seguito crescente da parte di un pubblico decisamente entusiasta. Sono reduci da tre buoni album e con “The Photo Album”, in particolare, pubblicato soltanto l’anno precedente, dimostrano di aver plasmato uno stile maturo e del tutto a fuoco. Manca l’ultimo gradino per raggiungere la perfezione formale, e quel gradino è “Transatlanticism”, il luogo in cui le idee, l’esperienza accumulata, un’espressività che chiede ulteriori spazi di manovra si incastrano alla perfezione. Gibbard in quel momento è una macchina che sforna a ripetizione bozzetti pronti a diventare canzoni e al tempo stesso sta affinando le doti di scrittore – nel senso letterale, o quasi, del termine. Trova la spalla ideale nel chitarrista Chris Walla, ormai del tutto a suo agio non solo come compositore ed esecutore, ma pure come produttore (la sua attività in studio da lì in poi sarà richiestissima), e l’affiatamento in studio è rinsaldato dall’avvento alla batteria di Jason McGerr, che va ad affiancare Nicholas Harmer alla sezione ritmica. È da queste premesse che nasce l’idea di una sorta di concept-album che ruoti attorno ai macro-temi delle relazioni sentimentali, dei dubbi insiti nella crescita e nell’esistenza tout-court, delle distanze spaziali e temporali impossibili da colmare: in altre parole, dell’assenza.
In questo senso va inteso il termine “Transatlanticism”, un neologismo coniato da Gibbard per raccontare la distanza – spaziale, temporale, emotiva – esistente tra due persone che si amano, o che hanno smesso di amarsi, o i cui sentimenti non sono nemmeno corrisposti. Dolore e riscatto, amarezza e nostalgia, passioni pruriginose: nessuno ne ha mai parlato in questo modo, e nessuno ha scavato così in profondità, almeno da diverso tempo a quella parte. La poetica Gibbard-iana si muove infatti per testi concisi, utilizza metafore, tende all’universale, perché in fondo parla di esperienze e sentimenti che tutti prima o dopo hanno vissuto. Non ha intenti consolatori, né propone soluzioni o vie d’uscita. È soltanto il resoconto nudo e spietato dei meccanismi che regolano – o smontano – i rapporti umani, con particolare afferenza alla sfera giovanile e a quella amorosa (tutte cose che si desumono, non essendo quasi mai esplicitamente rivelate).
Il contrappunto musicale ne segue le orme e gli sbalzi d’umore, ma è tutt’altro che cornice. I marosi elettrici plasmano i momenti più concitati, le ballate inquiete cullano pensieri e ricordi attraverso visioni nitide e tratteggiate con pochi, essenziali tocchi. Si gioca tutto su un’urgenza espressiva che sconfina a tratti in territori emo, ma senza mai cedere alle facili strade di una marcata emotività: tutto galleggia in un tiepido purgatorio nel quale non esiste alcuna differenza tra la realtà, l’immaginazione e i ricordi.
Non a caso, il disco verrà ben presto saccheggiato da serie tv e colonne sonore di film – tutte cose che concorreranno in modo inequivocabile a farlo diventare l’opera post-adolescenziale per antonomasia – a cominciare da The O.C., in cui il personaggio di Seth Cohen erge i Death Cab For Cutie a sua band preferita (“A Lack Of Color” entra anche nella soundtrack ufficiale).
Il grande manifesto generazionale si colora così di luci forti, di saliscendi emozionali che divergono in esiti opposti. Ci sono le esplosioni elettriche di “The New Year” e di una “Expo ’86” che sgorga in uno dei più riusciti ritornelli del decennio, l’esuberanza abbacinante di “The Sound Of Settling”, la tensione accumulata in “Title And Registration” (“and all I find/ are souvenirs from better times”, una sintesi spietata del concetto di nostalgia) e solo in parte liberata nel manifesto emo-rock tascabile “We Looked Like Giants” e nell’andamento frammentario di una “Death Of An Interior Decorator” che si trasforma in un crepuscolare carosello. Ci sono, anche e soprattutto, i momenti che affogano in un lirismo preciso e mai condiscendente. “Lightness” si muove in punta di piedi, cercando – e trovando – un invidiabile equilibrio formale. L’amarezza di fondo in “Tiny Vessels” (“this is the moment that you know/ That you told her that you loved her but you don’t”) finisce nuovamente per deflagrare nel chorus che si erge a emblema disperato di un amore ormai finito.
In direzione opposta si muove la title track, epicentro concettuale ed emozionale dell’opera, con il pianoforte e le chitarre che inscenano un crescendo di struggente bellezza e Gibbard che recita come un mantra “I need you so much closer”, servendosi dell’oceano come simbolo di una vastità insondabile che va a separare corpi e spiriti. Il punto di arrivo di un’intera scena, di una generazione in cerca di riferimenti si materializza in quasi otto minuti di inarrivabile lirismo.
E sembra davvero di averlo vissuto, il viaggio raccontato in “Passenger Seat”: due giovani, un’auto che corre nella notte, un senso di libertà e di felicità che tutti prima o dopo possiamo ammettere di aver provato. Un pianoforte, la voce di Gibbard a struggersi ancora una volta nel territorio alieno del passato, incrociando nel viaggio a ritroso un immaginario Kerouac-iano. Se poi la splendida “A Lack Of Color” declina i suoi arpeggi di chitarra al tempo presente, lo fa esattamente per lo stesso motivo: è il ritorno alla realtà, alla vita così com’è, al ciclo perpetuo dell’illusione che rinasce (“this is fact not fiction/ for the first time in years”). È il cerchio che si chiude, ancora una volta, ma forse non per l’ultima.
Recensione tratta da Ondarock