Can “Tago Mago” (1971)

Can “Tago Mago” (1971)

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Can
“Tago mago”, 1971 (United Artists Records)
Kraut-rock

di Gianni Avella

Di debutti importanti, di quelli che hanno cambiato il corso della musica e degli artisti stessi, se ne ricordano tanti: “Velvet Underground & Nico”, “The Piper At The Gates Of Dawn” dei Pink Floyd, “Marquee Moon” dei Television, “Unknown Pleasures” dei Joy Division, “Psychocandy” dei Jesus And Mary Chain. Ma volendo, ne potremmo aggiungere pure un altro, cioè “Tago Mago” dei Can. Perché: se “Monster Movie” vede Malcom Mooney alla voce, e “Soundtrack” lo si considera per quello che è, ovvero una raccolta di canzoni per il cinema (gli stessi autori l’hanno sempre considerano il secondo disco ma non il numero due), i Can nella formazione classica – Damo Suzuki alla voce,  Irmin Schmidt alle tastiere, Holger Czukay al basso, Jaki Liebezeit alla batteria, Michael Karoli alla chitarra – esordiscono proprio in questa occasione.
Dopo appena un anno di attività, e con un disco alle spalle, i Can si trovano al primo problema:  seguendo i consigli del suo psicanalista, Malcom Mooney lascia la band alla volta dei natii Stati Uniti. Per i quattro di Colonia è uno smacco, poiché seppur instabile (memorabile un suo crollo nervoso, seguito da un collasso, nella seconda uscita live) e talvolta assenteista, era stato proprio lui a spingere i Nostri ad abbracciare pure il funk, senza contarne il peculiare cantato.
Brutta tegola. Ma se Brian Eno teorizza l’ambient music perchè immobilizzato su di un letto, i Can scovano il nuovo cantante sorseggiando caffè.
È il destino che gioca il suo ruolo, in un pomeriggio del 1969. Chiacchierando al tavolo di un bar, Liebezeit e Czukay notano un busker dai tratti orientali che salmodia strane nenie rivolte al cielo. Di lì a qualche ora i Can suoneranno la prima di quattro date al Blow Up di Monaco, e Czukay non trova di meglio che andare da quello strano tipo e proporgli un posto da cantante. Lo strano tipo accetta; e una volta on stage, tra movenze spastiche e urla beduine, istigando i presenti lascia ai posteri un live che ancora oggi si ricorda. Poche volte si è visto un tipo così su di un palco, sinistro e innocente al contempo, viscerale e istintivo come un Fu Manchu (Christopher Lee docet) che gioca a fare il Jim Morrison. È l’uomo giusto anche per portarselo in studio.
Nel suddetto “Soundtrack” – cinque tracce per lui e due al dimissionario Mooney – bagna il  debutto in studio, con una “Mother Sky” che da sola basterebbe a santificarlo, ma il meglio deve ancora venire.
Al tramonto del 1970, in quel di Colonia,  rinchiusi in un’ala del castello Schloss Nörvenich, da qui in avanti nota come Inner Space Studios, i Can pianificano il loro personale capolavoro. Nei tre mesi di registrazione, con Holger Czukay a editare e manipolare, la band suona e convoglia istanze avantgarde e psichedelia secondo il dettame – velato – di eludere ogni modello angloamericano. E se “Monster Movie” fu degenere figlio di Velvet Underground e Pink Floyd, “Tago Mago” fu stato di grazia e miracolosa alchimia. Un doppio che poteva essere singolo, se non fosse stato per un personaggio del quale a breve diremo.
Si parte con “Paperhouse”. Liebezeit pare guardarsi intorno, sornione, muovendo se non dimesso quantomeno misurato, così come Suzuki.  Czukay si limita al necessario e  Schmidt a stento lo si nota, mentre Karoli – l’unico a vantare un background prettamente rock, e si sente – fraseggia come Sam Andrew di Janis Joplin memoria. E pure quando il mood cambia, spostandosi freneticamente in territori hard bluesy, pare di ascoltare una Kozmic Blues Band più invasata. Ma si prepara il campo. Mentre “Paperhouse” chiude “Mushroom” si insedia, come un unico corpo. Prende forma una peculiare istantanea funk ma pure dub, e lo sguardo comincia a farsi lungo (qui i primi semi di certa coraggiosa wave a venire), con Suzuki in trance e gli altri nei panni di una macchina ritmica perfetta. “Oh Yeah” si inaugura con un tuono (o una bomba esplosa) e la posta sale di livello, col synth di Schmidt a tener botta un Liebezeit che, in anticipo su Klaus Dinger (il primo Neu! uscirà nel 1972), ricalcando lidi “Mother Sky”, presenta il verbo motorik. La voce trattata dai nastri da un quid sinistro, e il basso tellurico, sorretto da una chitarra ancora bluesy, fa di “Oh Yeah” e dei suoi saliscendi ritmici un trattato di storia (moderna, sempre) tassativo per chiunque.
Da qui in avanti, da creativa e coraggiosa, la band si fa pure spaventosa. E mastodontica, come in “Halleluwah”. Prendete i primi Funkadelic e immaginateli più fuori del solito, tanto da ripetere per diciotto minuti lo stesso groove. È trance-funk alla codeina, sensuale nel cantato e reiterato nell’andazzo. Monotonia elevata a forma d’arte.
Quattro tracce che già da sole farebbero un capolavoro. Ma come ebbe a dire Czukay, quelle furono sessioni che “rappresentarono il tentativo di raggiungere un misterioso mondo musicale, dalla luce all’oscurità e ritorno”. Non potevano concludersi così. E fu grazie alla caparbietà della moglie di Irmin Schmidt, nonché manager del gruppo, Hildegard Reittenberg, che “Tago Mago” da singolo diventò doppio, includendo quel materiale che gli stessi Can, ma anche la label, avrebbero preferito lasciar fuori per un “Unlimited Edition” futuro.
E dalla luce, quindi, si passa all’oscurità. “Aumgn” è baccanale percussivo, un mantra, musica concreta o esoterica. La voce stavolta è di Schmidt, ma più che un canto il suo è un lamento, e sullo sfondo la sequela di clangori, violini e tastiere da all’insieme un che di spettrale. Per attitudine la si potrebbe associare ai Faust di “Tapes”, oppure ai Kluster, oppure ancora al nostrano Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza o agli Area di “Event 76”. Ma qui si va oltre, e solo loro sanno il dove. “Peking O” pare un bluff. La forma canzone viene del tutto destrutturata, se di canzone si tratta. La voce di Suzuki divaga senza senso alcuno, con la batteria elettronica, ora bossanova ora spasmodicamente accelerata, a tessere ritmi stranianti. E nel mentre, tra un piano jazz spastico e percussioni venusiane, l’unica certezza (?) è che per comprendere i Residents (?) forse da qui tocca partire.
E dall’oscurità, il ritorno. “Bring Me Coffee Or Tea” è sorretta dal basso ipnotico di Czukay e la batteria Liebezeit, qui a livelli umanoidi. È un groove solenne né funk né rock. È un suono tanto world music quanto prossimo a chissà quale rituale. Musica totale per taluni, da (ampia) camera per tal’altri. Senza dubbio, sconosciuta per i tempi.

“Tago Mago” è questo e di più. Banalità ovvia, ma necessaria.

Così com’è necessario tornarci su a quarant’anni dalla sua uscita. Perché, appunto, quarant’anni sono importanti e pochi ne reggono il peso. Tocca festeggiarli. E ci pensa la Mute, che per la ricorrenza stampa una nuova edizione di “Tago Mago”, doppia (laddove in digitale è sempre stata singola), allegandogli un cd live e richiamando – ma solo per l’involucro che lo contiene – l’originale copertina inglese. E nel live fa specie ascoltare “Halleluwah” (che per struttura potrebbe protrarsi giorni interi…) “ridotta a “soli” dieci minuti, “Mushroom” allungata il doppio (facendosi assai più cadenzata e minacciosa) e “Spoon” – da “Ege Bamyasi” del 1972, anno delle registrazioni in esame – resa un monstre di mezz’ora vertiginosa.
Ma non stupisce la freschezza di questo album, che a differenza di tanti classici (dai Led Zeppelin ai Velvet Underground), ancora oggi sembra uscito domani.

 

https://www.ondarock.it/pietremiliari/can_tago.htm

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