Bitch Magnet
“Umber”, 1989 (Communion)
Hardcore
di Francesco Nunziata
A tagliare in due l’epopea dell’hardcore ci pensarono i 25’46” di “Skag Heaven”, l’unico disco (tralasciando i 17′ dell’Ep d’esordio) di quella formazione fondamentale e leggendaria che furono gli Squirrel Bait, da Louisville, Kentucky. Tuttavia, affinché la rabbia e il nichilismo – e, perché no?, la poesia – di ciò che era all’inizio venisse trasfusa in nuove partiture, più complesse, sovente “matematiche”, cerebrali, ma comunque taglienti e furiose, furono necessari ulteriori ritocchi.
E’ il 1988 quando Sooyoung Park (voce e basso), uno studente dell’Oberlin College in Ohio, dà vita, insieme agli amici Jon Fine (chitarra) e Orestes Delatorre (batteria), ai Bitch Magnet, l’anello di congiunzione definitivo tra l’hardcore evoluto “in nuce” degli Squirrel Bait e le evoluzioni catalettiche, definitivamente “post-“, degli Slint, da cui, poi, avrebbero tratto le loro – diverse – conclusioni band del calibro di Don Caballero, For Carnation, Gastr Del Sol etc.
A dire il vero, di tutto questo non troverete molte tracce nell’Ep d’esordio, quello “Star Booty” ancora troppo impelagato in acque di torbido hardcore, spumante rabbia fradicia di feedback e di fuzz finto lisergico. Per avere la rivoluzione, bisognerà infatti attendere il 1989, quando, dopo l’entrata in organico del chitarrista David Grubbs, per la Communion fu pubblicato “Umber”.
Fu così che alla lezione degli Squirrel Bait venne affiancata quella – ancora più fondamentale da un punto di vista strettamente musicale – dei Big Black, le cui innovazioni armoniche e ritmiche, già calate in un clima di tragedia imminente, furono rivisitate in un’ottica “intellettuale”, per il tramite di una tensione emotivo-esecutiva che chiamava in causa i prodromi “math-rock” dei Blind Idiot God.
Ecco, quindi, in apertura, digressioni acide e ritmi geometrici mutare in una scorribanda esuberante che mescola in un colpo solo gli Husker Du di “New Day Rising” e i Pixies più orecchiabili di “Surfer Rosa” (“Motor”). L’aggiunta di una seconda chitarra permette di mantenere alta la tensione in feedback di fondo, consentendo, in parallelo, a Grubbs di delineare ora cromatismi power-pop, ora fendenti metallici, ma d’una trascendenza figlia dei deliri solitari di John Fahey, in stretto rapporto comunicativo con la batteria catastrofica di Delatorre. “Navajo Ace” ha uno sviluppo alquanto simile, anche se tra le allucinate spirali della chitarra e l’interplay basso-batteria, fratturato ma “meccanico”, s’intravede già un decennio di art-rock a venire. Così come “Clay”, nel suo lento incedere detonato dalle rumorose deflagrazioni delle sei corde (che, per la loro “spazialità satura” sono, in questo caso, figlie del “wall of sound” chitarristico di Bob Mould), espone un teorema fatto di accumulazione e dispersione che gli Slint di “Spiderland” porteranno a livelli sublimi. Un riff in perfetto stile hard-rock lancia l’anthem a testa alta di “Joan Of Arc”, sospeso tra statiche vampate e allunghi tremolanti. Il buco nero di “Douglas Leader” è aperto giusto in mezzo al cuore: accordi fragilissimi, quasi impercettibili; il canto sconsolato; la deriva del tutto, lungo argini di chitarre mandate in loop dentro il vuoto. Esempio di “grado zero della ballata”, che centinaia di band manderanno a memoria.
In “Goat-Legged Country God” troneggia il fantasma dei Big Black (hardcore trasandato con voragini psycho-industrial, ma in chiave maggiormente melodica), tanto che anche il canto di Park sembra evocare l’intonazione dimessa e morbosa di Steve Albini, senza però avventurarsi in meandri abulici e autistici – e, forse, per questo, finendo per aumentarne la carica “negativa” e “sinistra”.
“Big Pining”, invece, scodella un memorabile ritornello, incastonato tra vigorose eruzioni di noise “atmosferico” che, simili a un bordone incandescente, lambiscono la melodia, rendendola ulteriormente enfatica e, in ultima analisi, “visionaria”. “Joyless Street” galoppa vertiginosa tra tangenti di sofisticazione rumorista e micro-digressioni “progressive”, facendo balenare, per un attimo, alla mente una versione “deviante”, più tagliente e strutturalmente sfaccettata dei Dinosaur Jr.. Il definitivo parricidio, però, avviene con “Punch And Judy” che erige un marasma sonico capace di prefigurare nuove e più ardite soluzioni, andando a intaccare e, contemporaneamente, a sintetizzare diversi generi: l’industrial dei Big Black (le cui apocalittiche scorribande vengono vivisezionate per gradi successivi); l’avant-noise dei Sonic Youth (degradato a elemento della scenografia); il math-rock tumultuoso e indomito dei Blind Idiot God (che rappresenta la macro-struttura in cui i due generi precedenti vengono fatti convergere). Il risultato è uno dei brani più rivoluzionari di tutti i tempi, vera e propria summa di un decennio di ricerca nel campo della sperimentazione rock.
Razionalità e irrazionalità finiscono per essere accomunate, fuse in un unico disegno estetico in cui decade ogni contraddizione tra impulso e riflessione. Degli Squirrel Bait è rimasto poco o nulla. Lo conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, “Americruiser”: una batteria che scivola silente sullo sfondo; un recitato che è Slint prima degli Slint (ma di poco…); i collassi atonali che acuiscono la dolcezza delle chitarre che si costruiscono addosso un guscio di malinconia dolente mediante la reiterazione di pochi accordi, madidi di rabbia implosa e venati di paura… tenuta a freno, ma impossibile da nascondere. Ed ecco che, come per una luce sinistra, i secondi finali scivolano via nel silenzio, lentamente, in bilico tra riverberi ed echi di un accordo… uno solo…che blatera ormai soltanto un vaticinio inascoltato.
https://www.ondarock.it/pietremiliari/bitchmagnet_umber.htm