Francesco Guccini
“Via Paolo Fabbri 43”, 1976 (EMI)
Cantautorato, folk
di Fabio Guastalla
Una schiera di case basse in mattoni disposte una di fianco all’altra, adagiate all’ombra delle piante che le separano dalla sede stradale. Una via forse come tante, posizionata tra la Cirenaica e il quartiere di San Donato nel bel mezzo del tessuto urbano bolognese, eppure a suo modo speciale in quanto meta di un pellegrinaggio che ormai prosegue ininterrotto da quasi mezzo secolo. La via è intitolata a Paolo Fabbri, partigiano e antifascista ucciso sull’Appennino nel 1945. Il civico, quasi nascosto, è il numero 43.
I motivi che hanno spinto Francesco Guccini a intitolare il suo settimo album in studio con l’indirizzo di casa (all’epoca, oggi non più) sono tutto sommato intuibili. Anzitutto, il cantautore di Pavana aveva scritto le canzoni tra quelle quattro mura, e certamente voleva celebrare e mettere in mostra la dimensione domestica del nuovo repertorio. D’altro canto, un titolo come “Via Paolo Fabbri 43” sa intrinsecamente di anti-divismo, di annullamento della distanza tra l’artista e il pubblico. Nessun altro musicista, coevo e non, potrebbe forse avere il coraggio e la schiettezza di fare altrettanto.
Quando “Via Paolo Fabbri 43” esce nei negozi di dischi, nel 1976, Guccini ha alle spalle ormai dieci anni di carriera a proprio nome. Nel 1967, infatti, era uscito l’esordio “Folk Beat n. 1”, contenente alcune canzoni già note al pubblico in quanto affidate ad altri (“Auschwitz (La canzone del bambino nel vento)”, “Noi non ci saremo”) e alcuni inediti. Gli anni Settanta rappresentano un periodo di grande attività: soltanto nel primo lustro del decennio escono “Due anni dopo” (1970), “L’isola non trovata” (ancora 1970), “Radici” (1972) e “Stanze di vita quotidiana” (1974). Questi ultimi due, in particolare, mostrano un Guccini ormai totalmente padrone di una scrittura matura, affilata, assolutamente all’avanguardia rispetto al contesto italiano. Canzoni come “La locomotiva”, “Piccola città”, “Canzone della bambina portoghese”, “Canzone delle osterie di fuori porta”, giusto per citarne alcune, sono piccoli-grandi capolavori che mescolano con una poetica del tutto personale l’impegno per le cause “giuste” e spaccati di vita quotidiana, di esperienze vissute in prima persona. Appunti esistenziali, in qualche modo.
Di queste istanze, di questo modo di fare musica “Via Paolo Fabbri 43” è forse l’apice, il simbolo e probabilmente anche l’album di maggiore successo. Quello più riconoscibile e riconosciuto, forse anche per via del titolo così inusuale e pertanto iconico. Di certo il Guccini che emerge da questo repertorio è quello più ispirato e pungente, difensore dei diritti degli altri (“Piccola storia ignobile”, dedicata al tema dell’aborto) e pure di se stesso dentro “L’avvelenata”, simbolo della rivalsa dell’artista nei confronti della critica – ma anche di altri artisti, crepi l’avarizia. L’affondo anti-perbenista di “Piccola storia ignobile”, in particolare, apre i giochi come una Bocca di rosa priva di ogni risvolto beffardo. Una piccola storia, certo, ma di come ce ne sono tante, e con l’aggravante della complicità di un’intera società ancora fondamentalmente bigotta. Una storia che “non vale due colonne sul giornale”, e del resto “i politici han ben altro a cui pensare”.
Il fraseggio peculiare tra la chitarra acustica e la tastiera racconta anche del lavoro di arrangiamento che sta alle spalle dei brani. Ancora una volta Guccini in studio di registrazione è affiancato da uno stuolo di musicisti di livello assoluto: Ares Tavolazzi al basso e contrabbasso, Ellade Bandini alla batteria, Vince Tempera alla tastiera, Deborah Kooperman alla chitarra e banjo, giusto per citarne alcuni. “Canzone di Notte n. 2” è un inno alla vita da artista, un monologo loquace e brioso, un canto a quella notte che per la gente comune è sinonimo di riposo e che per Guccini è un turbinio di versi e melodie, un rincorrersi di note macchiate di vino, di solitudine e compagnia, di fiero anticonformismo (“mi spiace non mi lego a questa schiera, morrò pecora nera”).
De “L’avvelenata” si è già forse detto tutto. Delle rivendicazioni del Guccini artista, fieramente ingenuo come quando ricorderà nei “Quattro stracci” la felicità “di questo eterno mio incespicare”. Quello che emerge qui è un artista desideroso di rivendicare la propria libertà artistica e uno stile di vita molto diverso rispetto a quello in qualche modo imposto dalla società (“mi piace far canzoni e bere vino, mi piace far casino, e poi sono nato fesso”). Ma “L’avvelenata” è anche un ponte verso la critica a i “colleghi cantautori”, un altro argomento ricorrente all’interno della tracklist, e in particolare dentro a “Via Paolo Fabbri 43”, con il Nostro che cita Lilly, Alice e Marinella chiamando direttamente in causa Antonello Venditti, Francesco De Gregori e Fabrizio De André. La canzone che dà il titolo all’album è un continuo dentro/fuori: dalla strada che è sinonimo di casa, dal mondo dello spettacolo che rappresenta un’attrazione e al tempo stesso un luogo ricco di insidie, di invidie e di doppi giochi.
Il finale dell’album è in qualche modo declinato in toni minori. “Canzone quasi d’amore” è un altro ritratto di situazioni domestiche ma fondamentalmente universali, una dissertazione sulla nostra profonda natura e sui chiaroscuri derivanti dal vivere in coppia, dalla quotidianità consunta, ancora una volta dall’essere artista con tutto ciò che comporta. Su toni simili si dipana la storia de “Il pensionato”, vicino di casa del cantautore, monumento alla semplicità del vivere umilmente e con onestà (“fra i mobili che hanno visto altri splendori, giornali vecchi ed angoli di polvere e di odori, fra i suoni usati e strani dei suoi riti quotidiani: mangiare, sgomberare, poi lavare i piatti e mani”). È forse, inaspettatamente, il momento più lirico dell’opera: quello in cui Guccini si lascia andare alla poetica minuta e fragile dei suoi personaggi, senza tenere conto di sentimenti meno nobili.
C’è insomma uno scarto tra l’avvelenata e il pensionato, i due estremi del fare musica di Francesco Guccini. Che non è soltanto fare musica: è letteratura in versi e in prosa, è rivendicazione di ingiustizie, è il fremito di chi ha il dovere morale di raccontare la vita, anche e soprattutto nei suoi aspetti più spigolosi. Tutto questo in un unico indirizzo: via Paolo Fabbri 43.
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