La’s “The La’s” (1990)

La’s “The La’s” (1990)

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La’s
“The La’s”, 1990 (Go! Discs)
Jangle-pop, Britpop

di Martina Vetrugno

Timeless melodies, o il segreto che ha reso praticamente immortale ciò che risponde al nome di britpop, movimento che ha raggruppato sotto la sua ala (tra i tanti) i più famosi Oasis, Blur, Verve, Suede e Pulp, e che tra le principali influenze di partenza includeva quelle di icone anni Sessanta come Beatles, Kinks e Small Faces, non solo dal punto di vista del sound scelto da molte delle band, ma anche di tutto ciò che aveva rappresentato la subcultura mod. Ed è proprio dalla città d’origine dei mitici Fab Four che allo scoccare degli anni Novanta è arrivata la svolta decisiva, con la pubblicazione del debutto, destinato a rimanere capitolo unico, di un progetto nato nel 1983 dall’iniziativa di Mike Badger, e lasciato maturare tre anni più tardi nelle mani del cantante e chitarrista Lee Mavers e del bassista John Power: i La’s.
Le sonorità del gruppo pescano a piene mani dal luminoso repertorio jangle-pop costellato di cori e chitarrine, dalla grintosa tradizione sixties made in Uk, e soprattutto da memorie di matrice skiffle, ovvero un folk(-blues) eseguito con strumenti improvvisati in voga negli anni Cinquanta, nella fase che precedette la cosiddetta British Invasion. Tali ingredienti, amalgamati sapientemente con la giusta dose di nostalgia e liriche agili e brillanti, hanno permesso al quartetto di elaborare un’eccellente ricetta senza tempo. “The La’s” finisce sugli scaffali dei negozi nell’ottobre del 1990, dopo tre lunghi anni di complessa e ossessiva gestazione, e numerosi cambi di formazione, a causa dell’eccessivo perfezionismo di Mavers. La mano santa e paziente di Steve Lillywhite (così come quelle di Bob Andrews e Mark Wallis) alla produzione non sarà sufficiente a soddisfare né lui né gli altri componenti, i quali, dopo aver fatto dilapidare alla Go! Discs un capitale in sessioni di registrazione, arriveranno a rinnegare il risultato ottenuto.
Tanto semplice quanto efficace, ad ammaliare immediatamente l’ascoltatore con il suo giro di chitarra acustica è l’intro inconfondibile di “Son Of A Gun”, nella quale appare chiaro fin da subito che le melodie leggere facciano da contraltare a testi dalle sfumature ben più complesse e a tratti ironiche di come appaiono. La paranoia e l’insonnia la fanno da padrone insieme ad arie beat à-la Kinks nella gagliarda “I Can’t Sleep”, mentre il concetto cardine di ciò che sarà definito “britpop” negli anni a venire risiede nel titolo della successiva “Timeless Melody”. Morrisseyana negli intenti oltre che nello stile, la traccia sfoggia guitar riff ruvidi, contrapposti a passaggi dal sapore psichedelico, distanti dal mood madchesteriano di Happy Mondays e Stone Roses (altri pezzi fondamentali per la definizione dello scacchiere della Cool Britannia). La beatlesiana “Liberty Ship” risponde in pieno all’aggettivo “tuneful”, in quanto essenziale, pulita e accattivante, dominata quasi solo da voci, chitarra acustica e bassline, includendo anche dettagli dei primissimi Who di “My Generation”.
Il massimo emblema di pop song per antonomasia, nonché ponte ideale tra il passato, rappresentato dal declino degli Eighties, e il nuovo decennio, spetta a “There She Goes”. Ispirata alla “There She Goes Again” dei Velvet Underground, farà letteralmente impazzire Eric Clapton, Benjamin Gibbard, Noel Gallagher (che la annovera tra i suoi brani preferiti di sempre) e tanti altri, celando il tema della tossicodipendenza dietro all’apparente storia di un amore non corrisposto. L’astuta “Doledrum” gioca invece sul molteplice significato del titolo, possibile riferimento a uno stato depressivo, a una crisi economica, e utilizzato anche in ambito nautico, sulla scia di un concitato folk-blues anni Sessanta che richiama il Bob Dylan di “Bringing It All Back Home” e in parte gli Yardbirds.
La musica come vocazione e le canzoni interpretate come vere e proprie “chiamate” dall’alto sono il perno dei riff incalzanti in bilico tra rimandi bluesy e jangle di “Feelin'”, alla quale fa seguito “Way Out”, remake del primissimo singolo pubblicato dal gruppo nel 1987, che strizza l’occhio a Captain Beefheart & His Magic Band, e il cui video economico in formato Super 8 vanta un budget di soli 50 pounds. Scivolano via in un baleno i giri di chitarra dinamici dell’inno alla responsabilità collettiva “I.O.U.”, l’incedere grottesco dei passi blues di “Freedom Song”, che rievocano a tratti gli Stray Cats e la meditabonda “People Are Strange” dei Doors, e l’armonica della scalmanata “Failure”, che effettua una virata in direzione Bo Diddley.
La lunga conclusione in pompa magna, dopo una serie di sferzate quasi tutte sotto i tre minuti, è lasciata alle molteplici sfaccettature psichedeliche riflesse nello specchio rotto dell’articolata “Looking Glass”, il cui testo enigmatico scritto da Mavers nel giorno del suo ventiduesimo compleanno suona come un congedo definitivo. Il protagonista della canzone appare spaesato a seguito di un cambiamento ed è in cerca della sua strada, a patto di riuscire ad accettare il passato: “So the story goes it/ Everybody knows it/ Look into the past/ We can’t live without it/ We can’t live within it/ Everything must pass/ The change is cast…”. Quest’ultimo termine viene ripetuto più volte nei versi, e un’ulteriore curiosità probabilmente casuale, ma degna di nota, è che, di lì a un paio di anni, il nome del progetto post-La’s fondato da John Power sarà proprio Cast.
Il viaggio di Mavers e compagni di fatto è già giunto al capolinea e il resto è storia: il disco ha un buon successo ma non sfonda oltreoceano, sarà rivalutato per il suo ruolo fondamentale a posteriori, e il breve tour promozionale culmina con l’abbandono di Power nel dicembre del 1991. Da quel punto, nonostante il ritorno del bassista nel 2005, restano solo pubblicazioni di compilation e materiali d’archivio, e qualche live fino al 2011
Attraverso i suoi trentacinque minuti che si dissolvono in un battito di ciglia e bramano un secondo ascolto, poi un terzo, e molti altri a seguire, l’agrodolce malinconia dalle venature sixties di “The La’s” rappresenta il vero punto zero del britpop da cui tutto ebbe (di nuovo) inizio, e le cui influenze vennero subito incamerate da nomi come Oasis e Charlatans, eredità proseguita con l’indie-rock di Libertines e Courteeners, e che continua anche ai giorni nostri con il pop di The 1975 e affini.

 

 

https://www.ondarock.it/pietremiliari/las-thelas.htm

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