Stan Ridgway ” The big heat” (1986)

Stan Ridgway ” The big heat” (1986)

Condividi

Stan Ridgway
“The big heat”, 1986 (Irs)
Rock

di Francesco Nunziata

Stan Ridgway è al tempo stesso uno dei più grandi e uno dei più sottovalutati cantautori della storia del rock. La sua musica, all’incrocio tra le colonne sonore di Ennio Morricone e gli scritti di Jim Thompson, è certamente una delle conquiste più alte e significative degli anni 80. Operando una sorta di sintesi “emozionale” tra echi “roots”, sintetizzatori, strumenti, per così dire, “nobili” (violino, violoncello, trombone, banjo, mandolino) e l’elettricità tipica del rock, ha consegnato alla storia un capolavoro assoluto come “The Big Heat”, destinato a restare forse per sempre un opera “di culto”. E questo in virtù del suo essere un personaggio scontroso, perso tra le pieghe della sua anima, in cerca delle parole e della melodia giusta per mettere d’accordo cuore e cervello, anima e corpo.
Nato nel deserto californiano, a Barstow, quasi mezzo secolo fa, dopo essersi trasferito nella più caotica e vitale Los Angeles, Ridgway sviluppa una passione viscerale per la musica folk, costringendo i suoi genitori a regalargli un banjo. Ha soli 14 anni. Intanto, Johnny Cash diventa l’idolo da emulare. Tracce profonde resteranno sul suo metodo compositivo, anche se non va sottovalutata l’influenza, come egli stesso dichiarerà, di Peter Gabriel e di Kurt Weill. Il ’77 incalza. Il punk è una bomba impossibile da disinnescare. La new wave è già dietro l’angolo, pronta all’agguato… Tuttavia, in sintonia con la sua formazione musicale, Ridgway decide che non sarà quella la sua strada. Certo, come tanti al tempo, mette su una band, i Wall Of Voodoo, ma tende a considerarla più come un collettivo di compositori che come una vera e propria rock-band. La volontà è quella di suonare musica sulla falsariga delle colonne sonore di film dal budget irrisorio. Ma l’humus socio-culturale è quello, insomma: difficile non esserne, almeno in parte, contagiati. Così, nel suono dei Wall Of Voodoo finiranno per convivere, in maniera impeccabile, la rilettura della musica “roots” americana, l’impeto irrequieto della new wave (associato a ritmiche spesso ai limiti della disco-music) e le nuove possibilità offerte dagli sviluppi dell’elettronica. Ridgway se ne ricorderà quando, dopo aver registrato almeno un lavoro eccellente (“Call Of The West”, 1982, con l’hit “Mexican Radio”), deciderà di mettere fine alla parabola dei Wall Of Voodoo per intraprendere la carriera solista.
Tra piccole collaborazioni e periodi di ozio assoluto, viene allestito il capolavoro in questione. E’ il 1986. Ridgway ha 32 anni, ma in copertina sembra mostrarne molti di più, immerso, com’è, in una atmosfera da tipico film noir. Si presenta come un cantore epico della società industriale. Tutti i suoi falliti (pazzi, reduci di guerra, drogati, criminali) sono il risultato forse più evidente del declino di un’epoca. Innalzarli al livello di eroi, assegnando loro un valore simbolico, è sintomo di un sentire estremamente controcorrente, soprattutto in un epoca di riflusso conservatore, come quella reaganiana. La “daydream nation” (la “nazione del sogno a occhi aperti”, per dirla con il titolo di uno dei dischi più famosi dei Sonic Youth) si scopre nuda, fallace, costruita sulla sabbia, anche se solo per poco più di quarantadue minuti. Tanto dura “The Big Heat”: ma quanto basta per stregare, rendendoci partecipi del genio di un artista unico, quasi una versione modernista dei cantastorie medievali. Comunque, al di là di qualsiasi definizione musicologica, Ridgway è soprattutto un amico; di quelli sinceri. Qualsiasi cosa stia cantando, puoi stare certo che sta dicendo la verità. Non solo la “sua” verità. Perché solo chi ha guardato la vita in faccia, senza mai distogliere lo sguardo, può appropriarsi di sapori profondi, che stanno necessariamente oltre ogni apparenza.
Ogni suo testo è una piccola scenografia. La sua voce è l’occhio che ci guida sui controcampi, sui piani-sequenza, sui montaggi paralleli. La musica dipinge gli scenari, lascia intravedere la soglia che conduce dalla vita alla finzione, e viceversa; sempre composta, raffinata, elegante, anche quando il battito ritmico è contagioso, irriverente. Come quello della iniziale title-track, trafitto da eccentriche polluzioni elettroniche e da un’armonica metafisica, prima di librarsi in un ritornello, oserei dire, perfetto, tra malinconici accordi di piano, note statiche di violino e fasce avvolgenti di synth. “And everybody wants another piece of pie today”, canta, e tutto sembra così maledettamente vero.
“Pick It Up” ricorda effettivamente le complesse partiture del Peter Gabriel solista, ma con un inedito profumo “quarto-mondista”, grazie al sapiente gioco di rifrazioni tra poliritmie e violini esotici (Richard Greene) da una parte, e gli effetti psichedelici delle tastiere di Mitchell Froom dall’altra. La successiva “Can’t Stop The Show”, con ritmica ansimante e un altro dei suoi indimenticabili ritornelli, è più intimista, mentre “Pile Driver” srotola un country schizofrenico, puntellato dalle solite svagatezze sintetiche. E’ evidente quanto Ridgway cerchi sempre di mantenere un equilibrio costante tra malinconia e allegria. Certe volte, però, è impossibile non lasciarsi portare via dalla corrente. Certo volte, perciò, si finisce per scrivere brani come “Walkin’ Home Alone”, talmente emozionanti che dovresti stringere la mano a Ridgway per sentirti a posto con la coscienza. Sublime pop-jazz: questo è “Walkin’ Home Alone”. Tutto immerso in un’atmosfera “notturna”, tra strade desolate su cui scintillano le luci opache dei lampioni e schegge di un amore andato che sfregiano la pelle. Una malinconia viscerale, che si rivela ancora più tragica mentre le parole sospingono alla disperazione, ma quasi con tenerezza, ciondolando come un barbone ubriaco, mentre il trombone ulula a una luna invisibile la sua claustrofobia. Perciò: “So put another quarter in the jukebox Pete, but don’t play that one with the sad trombone ‘cause tonight I’ll be walkin’ home alone.”
Apparentemente di un’altra tensione emotiva, è il synth-pop nevrotico di “Drive, She Said”, seguito da “Salesman”, ancora a ritmo caracollante e infestata dalla “feedback guitar” di Eric Williams e dall’ “emulator” di Richard Gibbs. “Twisted” sembra ritornare alla lezione di Peter Gabriel, ma con minore enfasi ritmica. L’epicità western di “Camouflage” (tra nostalgiche figure tastieristiche e ricami di banjo e mandolino) viene “straniata” da una novella sulla guerra raccontata da Ridgway nelle vesti di un reduce del Vietnam. Qui più che altrove, la componente morriconiana è stata sviscerata nei suoi elementi cardine, per essere riadattata in un nuovo contesto. Sorprendentemente, questo brano arriverà nella Top Five inglese. L’incarico di abbassare il sipario è affidato al brioso dondolio di “Rio Greyhound” (all’epoca presente solo sulla versione Cd), uno strumentale per drum-machine e tastiere che si fa carico di stemperare la tensione fin qui accumulata con una generale atmosfera di svagatezza, dalle inflessioni corali.
“The Big Heat” è a tutt’oggi il disco di una carriera. Dopo questo straordinario exploit, infatti, Ridgway non riuscirà più a ritrovare l’ispirazione di un tempo, finendo per registrare solo dischi al massimo piacevoli, ma privi di gemme luminosissime come “Walkin’ Home Alone”, “Camouflage” o la stessa title-track, tra i brani capolavoro degli anni 80. Proprio come questo meraviglioso regalo di Ridgway.

 

 

 

ondarock

Condividi