Queens Of The Stone Age “Songs for the deaf” (2002)

Queens Of The Stone Age “Songs for the deaf” (2002)

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Queens Of The Stone Age
“Songs for the deaf”, 2002 (Interscope)
Stoner rock, hard rock

di Fabio Guastalla

Una macchina sfreccia lungo una strada che taglia in due il deserto californiano. Ci sembra di sentire il rombo regolare del motore, di avvertire la sabbia fine che gira nei cerchioni e solleva nuvole che si disperdono nel panorama infuocato, inquadrato dallo specchietto retrovisore. Di quando in quando, uno speaker radiofonico irrompe dalle casse dell’impianto stereo e si erge a ultimo, remoto baluardo di una umanità che non è mai sembrata tanto distante, mentre percorriamo anche noi questa distesa apparentemente senza vita e costantemente battuta da un implacabile sole.
Se è vero che “Songs For The Deaf” non è a tutti gli effetti un concept-album, come ha spiegato in più di una occasione Josh Homme, d’altro canto è altrettanto vero che è l’ambientazione in cui le canzoni prendono vita a essere più precisa che mai. Il viaggio in automobile attraverso il deserto californiano non è in fondo che un abile espediente, una piccola ma intelligente variazione su di un tema che lo stesso Homme, in compagnia di Nick Oliveri, esplora ormai da ben oltre un decennio prima con i Kyuss e poi con i Queens Of The Stone Age, ma non solo. Una parte non irrilevante del repertorio del disco, registrato tra l’ottobre del 2001 (subito dopo l’attacco alle Torri Gemelle) e il giugno del 2002 tra San Rafael e Hollywood con la produzione di Eric Valentine, proviene addirittura da The Desert Sessions, il progetto fondato da Homme nel 1997 e che coinvolge numerosi nomi di rilievo della scena occidentale. Alcuni di questi brani vengono anche stati suonati dal vivo, benché nella loro forma originaria.
Convinto della bontà degli spunti e al tempo stesso della possibilità di migliorare i pezzi a disposizione, Homme mette in piedi un altro dream team. Non solo riconvoca Mark Lanegan, già presente nel side-project (e ormai a suo agio nel ruolo di ospite onnipresente negli altrui album), ma riesce a convincere – anche in questo caso con estrema facilità, va detto – Dave Grohl a riposizionarsi dietro a piatti e tamburi come ai vecchi tempi, costringendo i lavori per il nuovo disco dei Foo Fighters (“One By One”, ndr) a slittare di qualche mese.
Del drumming di Dave Grohl in “Songs For The Deaf” si è parlato a lungo, non solo per la portata “epocale” dell’evento, ma anche per il tocco che l’ex-Nirvana ha saputo dare alle canzoni, concorrendo a trasformare il disco in quello che è, ovvero – con ogni probabilità – la migliore testimonianza della scena alt-rock americana del nuovo millennio. La frenesia e il senso di inquietudine che attraversano l’album, spingendo lo stoner rock verso nuovi confini, poggiano su basi solide: il martellare costante della batteria e i riff al vetriolo che ne tengono ostinatamente il ritmo. Non meno importanti sono le linee vocali: basta accendere il motore della macchina per trovare un Oliveri trasfigurato nell’interpretazione di “You Think I Ain’t A Dollar, But I Feel Like A Millionaire”, una sorta di bizzarro incrocio tra l’hardcore californiano e l’hard rock, con tanto di intro motorik a firma Grohl.
Siamo sì, ampiamente, nell’alveo dello stoner rock, e tuttavia è chiaro da subito l’intento dei protagonisti di spingere il bolide oltre i limiti consentiti. Se c’è un termine che si abbina alla perfezione a “Songs For The Deaf”, quello è eccesso. Negli intenti, nella forma, nei contenuti. C’è tanta di quella materia in scaletta che sembra di toccare una roccia incandescente. Le strofe di “First It Giveth” sono scandite dai continui colpi di rullante e si aprono in un ritornello sostanzialmente heavy. Termine, quest’ultimo, che si abbina anche alla travolgente intro (e al gemello finale) di “Song For The Dead”, impreziosita dalla voce malata di Lanegan, che sembra perdersi come un’eco in vallate senza fine – e senza scampo. È uno dei pezzi più complessi a livello strutturale, con i suoi assoli psichedelici, le pause improvvise e le ripartenze, i bruschi cambi di tempo.
Al cento per cento stoner sono invece le chitarre distorte di “The Sky Is Fallin’”, nelle quali si incastona forse la migliore prova vocale di Homme. L’alternanza di riff al vetriolo e brevi mantra desertici consegna uno dei brani più riusciti dell’intera parabola dei QOTSA.
I pezzi più celebri, entrambi pubblicati anche come singoli, sono senza dubbio “No One Knows” e “Go With The Flow”. Il primo è un travolgente uptempo letteralmente trascinato dal groove di cassa-rullante di Grohl, che coinvolge nel suo vortice chitarra e basso e le voci intrecciate di Homme e Lanegan, un brano di straordinaria e folle tracotanza. “Go With The Flow”, scritto da Homme e Oliveri, è un proiettile hard-rock dotato di un afflato epico, a mo’ di nuovo standard per tutti i rocker del nuovo millennio.
Il timbro inconfondibile di Mark Lanegan ritorna in “Hangin’ Tree”, altro pezzo sferzato dagli implacabili colpi di rullante di un Grohl in totale stato di grazia. Il pezzo più “spendibile” dell’intera opera è forse “Gonna Leave You”, che con i suoi tre minuti avrebbe potuto essere un ottimo singolo, capace di avvicinare ai Queens Of The Stone Age un pubblico meno avvezzo a certe spigolosità. Il brano fa il paio con la successiva “Do It Again”, che non rinuncia né alla sua natura hard rock né tantomeno a una orecchiabilità che si manifesta ancora una volta nel ritornello.
L’anima stoner si rifà sentire prepotentemente nella lunga “God Is In The Radio”, andando a intrecciarsi con le sue stesse radici blues/hard, ma altrettanto interessante è la ricetta sonora di “Another Love Song”, ammantata in un’epica che sa di western nell’accezione più pura e plausibile del termine. L’ultima apparizione Lanegan-iana è nell’oscura e introversa “Song For The Deaf”, vero e proprio commiato prima che siano le trame acustiche di “Mosquito Song”, ghost track inclusa a fine scaletta, a chiudere il cerchio nel modo più inatteso.
Snodo fondamentale della scena alternative-rock americana, punto di incontro di alcune tra le menti più illuminate della medesima, crocevia angolare dello stoner rock e di tutto quanto gli ruota attorno: “Songs For The Deaf” è tutto questo, e forse anche qualcosa in più.

 

 

 

Ondarock

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