Fleetwood Mac “Rumours” (1977)

Fleetwood Mac “Rumours” (1977)

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Fleetwood Mac
“Rumours”, 1977 (Warner Bros.)
Pop

di Michele Saran

La saga Fleetwood Mac, dopo il glorioso periodo blues-rock di Peter Green, nella prima metà dei 70 si trova a ciondolare tra tentati esperimenti e muzak in dischi pressoché soprassedibili come “Penguin”, “Heroes Are Hard To Find” e “Mystery To Me”. Quando, nel 1974, il batterista Mick Fleetwood assolda Lindsey Buckingham (e, di rimando, la sua compagna Stevie Nicks) assegnandogli l’incarico di rifondare il complesso, nessuno si aspetta il botto. Ma già l’album omonimo del ’75, grazie a “Rhiannon”, la melliflua “Warm Ways”, a “Blue Letter” e soprattutto a “Landslide”, è un caso discografico di reale rinnovamento (o svecchiamento) del rock melodico di consumo. Per la prima volta nella sua storia, il pop aggiunge con decisione tocchi metafisici, eleganti, o di puro e semplice incanto, dando forza inedita ai motivi, ai dettagli stereofonici, al mero fatto atmosferico.
Il disco si lascia felicemente alle spalle il mediocre periodo di transizione dei Fleetwood Mac, ma a coronare la nuova coppia e il rinato complesso (anche se già minato da svariati dissapori) è soprattutto il successivo “Rumours”, uno dei dischi più venduti di tutti i tempi (e un successo mondiale persino imbarazzante, considerati i presupposti), segno che la ricetta approntata da Buckingham e collaboratori, qui infallibile, ha ricevuto la credibilità che meritava.
Anzitutto, in “Rumours” la sfera melodica raggiunge una dimensione pressoché ineccepibile; i singoli elementi della scrittura (refrain, accenti strumentali, arrangiamenti) si bilanciano a vicenda con cura estrema. Ultimo ma non certo ultimo, la produzione, il vero capolavoro nel capolavoro, è a dir poco scintillante: di più e meglio del wall of sound Spector-iano, è in grado di esaltare tutti i timbri (dalle armonie vocali ai sostrati di sottofondo di chitarra dosata, di steel, di organo etc.), di dar loro la giusta dignità, l’orecchiabilità, la volumetria, la spazialità. L’apparato di produzione di “Rumours” è tale da imporsi come vero e proprio membro aggiunto del complesso, come melodia fantasma insita in tutte le canzoni dell’opera, come puntina-ombra del giradischi.
Al pari di altri act di alto livello, da Steely Dan a Chicago, i Fleetwood Mac con “Rumours” riescono dunque a incrociare tutte le declinazioni del pop e della new wave. Sia l’insieme che le singole parti (e la loro somma) sono a dir poco memorabili.
“Second Hand News” è la centrata ouverture, un preludio-inno tanto baldanzoso quanto entusiastico, portato avanti a suon di cori (quasi un sing-along da oratorio) su accordi cristallini e distorsioni in lontananza, e così “I Don’t Want To Know” spinge decisa l’acceleratore delle atmosfere West-Coast e dei Mamas & Papas. Il breve, commovente stomp acustico per chitarra e voci languide di “Never Going Back Again” introduce l’arioso organo di “Don’t Stop”, che si regge su scale boogie-woogie e si libra in un incalzante refrain: la capacità del complesso nel costruire radiosi stornelli pop non conosce limiti di sorta.
“You Make Lovin’ Fun”, da parte di Christine McVie, coniuga con perfetta nonchalance nuove tentazioni erudite con alte invocazioni vocali sognanti. E “Go Your Own Way”, con un ritornello che mette i brividi (dissolvendo di botto i nervosi controtempi della strofa), è un’immacolata disamina a perdifiato.
La fiera, intrepida “The Chain”, in realtà una delle partiture più ardite di Buckingham (anche se composta dal complesso in seduta plenaria), a partire da una sottigliezza metafisica diventa anthem fiero quasi post-Jefferson Airplane, fino alla coda trascinante che insegnerà qualcosa anche alle nuove generazioni mainstream (Dire Straits su tutti). “Oh Daddy” ne riprende la rarefazione, stavolta con fare più malizioso, passo flamenco, schitarrate a effetto, chorus a cappella e canto modulato.
La personalità instabile (confessionale, flebile, ansiogena) di Stevie Nicks straripa in “Dreams”, vero traino dell’intero album e successo di fama universale, con presa sicura di soffi vocali compiangenti e controcanto onirico della chitarra di Buckingham (forse il suo capolavoro strumentale). Invece, Christine McVie raggiunge il suo primo vero nadir in “Songbird”, una sonata asservita tanto da superbe modulazioni che da malinconici legato di piano, in una solitudine da fiaba.
“Dreams” e “Songbird” sono dunque i due pilastri spirituali dell’opera, due efficacissimi atti confessionali da parte delle cantanti, l’una soprano indomito (Nicks), l’altra contralto commosso (McVie). Ma “Gold Dust Woman”, via groove spettrale alla Creedence, riesce a dire una parola in più sulla Nicks chanteuse, anelante e grintosa.
Paga pegno chi non scolpisce nella memoria dopo solo qualche ascolto fugace uno dei dischi più consumati e “consumabili”, dell’intera avventura della musica popular. Non è solo un popolarissimo bestseller, è soprattutto un mirabile esemplare di successo non costruito (non cercato, forse appena vagheggiato), di alchimia di stili lontani che sfugge ai semiologi, agli esperti musicologi, e anche ai maghi del marketing discografico, e una delle maggiori conquiste di Lindsey Buckingham (seconda solo alle avventure di “Tusk”, 1979), che avrà come legacy decine di cantautrici leggere di classe (da Shania Twain a Faith Hill, a Sheryl Crow), ma pure inquiete come Kristin Hersh e Courtney Love, Joan Jett e le riot-grrrls più disinibite e meno oltranziste.
Il sound è miracolosamente fluido al 100%, nonostante le mille fatiche per portare a termine il progetto (documentate peraltro nelle svariate riedizioni celebrative dell’album, ultima per cronologia quella del 2009, in concomitanza con nuova reunion e tour mondiale). La produzione, che nel frattempo ha spostato di qualche ettaro lo standard del futuro, farà sudare freddo diversi ingegneri del suono (ma anche e soprattutto i patron delle major). “Go Your Own Way”, primo singolo estratto, ancora ignaro del successo stratosferico, è una requisitoria di Buckingham nei confronti di Nicks, un j’accuse sulla fine della loro relazione (che Nicks non avrebbe voluto vedere nella tracklist finale). Diversi premi e riconoscimenti internazionali.

 

 

 

 

Ondarock

 

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