Ivano Fossati
“La pianta del tè”, 1988 (Cbs)
Songwriter, world music
di Giuliano Delli Paoli
La Camellia sinensis è la pianta del tè, ed è coltivata soprattutto nelle zone tropicali e subtropicali del pianeta. Formata da foglie i cui germogli racchiudono l’essenza della storica bevanda, l’età delle medesime risulta fondamentale per garantire la varietà dei sapori, quella diversità che tutti conosciamo fin dall’antichità. La maturazione assume quindi un ruolo chiave nella raccolta, così come i vari trattamenti che la seguono. Ebbene, è in questo particolare processo naturale che Ivano Fossati trova uno dei tanti ganci metaforici contenuti ne “La pianta del tè”, decimo disco di una carriera luminosissima, tra le più intense, proficue e versatili della canzone d’autore italiana.
Il viaggio umano e artistico del cantautore genovese nel 1988 vede la sua meta più lontana. L’amore per la world music raggiunge vette assolate, mentre la sensibilità del musicista si espande all’inverosimile, toccando gli angoli più remoti del pianeta e di una coscienza critica formidabile, capace di scandagliare interi tessuti della società, così come di accarezzare l’animo umano con una visione personale, lungimirante e totalizzante delle cose. Un album che segna l’avvio della stagione d’oro della sua carriera artistica. Ma soprattutto la definitiva conferma di Fossati come autore colto e musicista di prim’ordine. La prova più lampante della distanza da certe spigolosità degli esordi è il confronto tra “La costruzione di un amore” nella contorta e tormentata versione originale con quella cristallina e impeccabile di questo capolavoro, che è nel complesso perfetto nell’orchestrazione, e alterna originali e colti spunti etnici, intrisi di spezie orientali, a composizioni più classicamente occidentali, il tutto sostenuto da un’inventiva in stato di grazia e da una cura quasi maniacale dei particolari. Basta e avanza per compensare certi eccessivi ermetismi dei testi, che sono e saranno sempre ricorrenti nel suo canzoniere.
Capolavoro nel capolavoro è proprio l’introduttiva title track, “La pianta del tè” (parte I e II), il cui fascino notturno, lunare e misterioso è reso dal contrasto tra i vellutati flauti di canna andini e le percussioni ostinate e inquietanti, ma mai invadenti. Già stupenda la prima parte, ma la seconda raggiunge vette da brivido, con i flauti di Una Ramos che scatenano tutto il loro potere magico, trasportando davvero in cima a qualche picco cileno o peruviano. Analoga ambientazione notturna ha “La volpe”, cupa filastrocca dove non stona neanche il tipico belato di Teresa De Sio, qui usato come appropriato controcanto alla secca voce di Fossati. È il brano più esotico del lotto, di certo tra i più mediterranei.
Momento di profonda malinconia è invece “L’uomo coi capelli da ragazzo”, dove il clima di solitudine e malattia è reso dall’estrema tensione creata da un basso che ronza insistentemente e dall’implacabile ripetizione di una nota di tastiera a intervallo fisso: un “effetto goccia” che copre tutto il brano, mentre le parole segnalano rotte che non si possono dare, in quello che risulta essere “nient’altro” che un nichilismo espanso di un uomo che guarda il tempo con compostezza e sopraggiunta rassegnazione.
Una consapevolezza che cozza con l’eterna melanconia riflessa in uno sguardo che per l’occasione oltrepassa più volte l’orizzonte, cercando nuove oasi dell’io, nuove fughe interiori. La foto in copertina posta sopra un’antica cartina geografica è l’ideale cornice visiva di un album che celebra il viaggio, sia fisico che figurato, come azione salvifica da compiere. Fossati ha in mano la propria bussola e sa perfettamente leggerla. Conosce le tempeste del proprio cuore e i venti che agitano il suo cammino. Un trip trasognato, il cui diario di bordo è ricco di suggestioni.
“Questi posti davanti al mare” è costruita su una melodia elementare, ma è aperta e chiusa da una squillante fanfara di tastiere; possiede un ritmo complesso ma irresistibile (difficile tenere le mani ferme), e, come se non bastasse, è nobilitata dalla partecipazione di Fabrizio De André e Francesco De Gregori. L’altro nume tutelare di Fossati, ovvero Paolo Conte, non compare di persona, ma viene più che evocato in un delizioso quadretto alla francese, “Le signore del Ponte-Lance”, per pianoforte e voce, degno di certe analoghe composizioni dell’avvocato di Asti.
Anche i brani leggermente meno ispirati contengono sempre qualche preziosismo che li rende inconfondibili: vale per “Terra dove andare”, con il suo ardito accostamento di fisarmonica e ritmo reggae, e per “Chi guarda Genova”, la cui elaborata ritmica, sempre di ispirazione caraibica, è scandita anche da un insolito flauto che affianca la consueta batteria. Eppure, in entrambi i casi il risultato è non solo estremamente originale, ma anche assai gradevole.
Merita un cenno a parte anche la breve chiusa, “Caffè lontano”, in cui il limpido suono dell’arpa celtica suonata da Vincenzo Zitello addolcisce la voce un po’ lamentosa. Contiene, tra l’altro, un verso illuminante alla Paolo Conte: “I londinesi sono ombrelli in pena contro il vento”. Geniale, come tutto il disco. “La pianta del tè” è infatti un album memorabile, snodo epocale di una ricerca musicale raffinata e di una scrittura tra le più entusiasmanti del Belpaese. Le sue atmosfere contaminate di fascinazioni lontanissime possiamo ritrovarle in altri pochi dischi, alcuni dei quali poco citati, come “Sirtaki” di Mango del 1990, e altri letteralmente semisconosciuti, come il capolavoro nascosto di Paolo Modugno, “Brise D’Automne”, uscito anch’esso nel 1988, anno di grazia non solo per il buon Fossati ma per la musica italiana tutta.