Funkadelic
“Maggot brain”, 1971 (Westbound Records)
p-funk, psych-rock
di Giuliano Delli Paoli, Salvatore Setola
I chitarristi si dividono in tre categorie: quelli che si fanno le seghe, quelli che scopano e quelli che fanno l’amore. Eddie Hazel, nel brano omonimo che apre “Maggot Brain”, fa tutte e tre queste cose contemporaneamente. Ma come se il genere umano dovesse estinguersi domani. Negli Universal Studios di Detroit, prima di iniziarne la registrazione, George Clinton gli fece soltanto una raccomandazione: “Suona come se tua madre fosse appena morta”. L’arte è sempre rappresentazione di qualcos’altro, spesso è costruzione autentica di finzioni sincere. Immaginare un lutto inesistente, immedesimarsi in uno stato d’animo differito significava mettersi in credito col dolore. Tenuto anche conto del contesto storico di riferimento, non era poi tanto improbabile che da quell’istigazione a simulare Hazel tirasse fuori uno degli assoli di chitarra più catartici di sempre. I fragili argini eretti in muratura di acido lisergico, dietro i quali un’intera generazione aveva creduto di riuscire a rifugiarsi per sfuggire agli attacchi di un mondo infido, iniziavano a scricchiolare; la memoria – tanto quella collettiva quanto quella individuale – cadeva preda di valchirie urlanti. Secondo Rickie Vincent il titolo “Maggot Brain” sarebbe un riferimento al momento in cui Clinton scoprì, in un appartamento di Chicago, il cadavere di suo fratello con la testa spappolata. Aneddoto macabro a parte, “Maggot Brain” sintomaticamente era il sipario che calava su un’intera epoca, aperta dalla vitalità tracotante della beat generation e propulsa dalle utopie flower power, presto arenatasi tra i mari di sangue della sparatoria alla Kent State University e dell’eccidio di Beverly Hills, di Kennedy freddato in diretta televisiva, di Martin Luther King e Fred Hampton assassinati per aver risvegliato i neri dal sonno raccontandogli un sogno.
Nel 1971 i tempi erano già cambiati, per l’America e per il mondo. E dunque anche per gli stessi Funkadelic che laddove avevano aperto l’omonimo esordio con un’apologia metafisica dell’amor carnale (“If You suck my soul, I will lick your funky emotions”, primo verso recitato in “Mommy, What’s A Funkadelic?”) e il suo successore con un proclama messianico (“Free Your Mind And Your Ass Will Follow”), stavolta piazzavano a incipit del loro terzo album un’ipotesi di requiem, introdotta da un breve sermone in cui Clinton annuncia che Madre Terra è incinta per la terza volta (a causa degli uomini che l’hanno fottuta). Fu sufficiente una sola take a immortalare questo libero adattamento dal profeta Hendrix. Ma se la chitarra di Hendrix ghermiva lo scoppio delle mitraglie nell’inferno del Vietnam, quella di Hazel in “Maggot Brain” sollevava le membra dei Marines rispedite a casa in una bara e le carcasse dei vietcong lasciate a decomporsi sull’asfalto. Hendrix era la guerra, la catastrofe, l’apocalisse. Hazel il giorno dopo: la conta dei danni, il cordoglio, la paura e la sfiducia di ricostruire. “Ho assaggiato il verme nella mente dell’universo”, recita Clinton. L’eco di queste parole svanisce in una burrasca di distorsioni wah wah, un naufragio senza prospettiva di terra. L’arpeggio di sottofondo – talvolta associato a quello della celeberrima “The House Of The Rising Sun” – ondeggia rassegnato tra scossoni fuzz misurabili solo in scala Richter e carezzevoli risvolti in delay. In fondo, ogni sogno che finisce ha comunque un retrogusto dolce: la dolcezza stessa di aver sognato. Adesso anche gli illusi avevano il loro inno nazionale. Solenne come tutti gli inni nazionali. Accorato come l’addio di chi si è appena ritrovato. Inconsolabile, tipo un allarme antincendio che suona a vuoto nel cuore di un paese deserto.
Solo degli alieni potevano partorire un brano del genere e in un certo senso i Funkadelic lo erano davvero. Il loro look extraterrestre (gilet e bikini metallizzati, copricapi etnici, tuniche piumate) sarà riconosciuto quale antesignano dell’estetica afro-futurista degli anni Novanta, un movimento culturale volto a rileggere in chiave fantascientifica la condizione di subalternità dei neri rispetto ai bianchi, per cui gli elementi-cardine del genere vengono caricati di simbologie razziali (i robot schiavizzati dall’uomo bianco, le astronavi che li deportano come un tempo le navi negriere). Un virtuosismo estetico che va a sommarsi alle tante tessere di un mosaico artistico decisamente unico nel suo genere. Questo ruolo pioneristico dei Funkadelic è condiviso con un altro gigante, Sun Ra, eletto nume tutelare del lungo baccanale space-funk posto a chiusura dell’album, “Wars Of Armageddon”, nei cui poliritmi esagitati riecheggia il monito di un manifesto della Process Church Of The Final Judgment riportato all’interno del vinile: “La paura è alla radice dell’autodistruzione umana. Senza paura non esiste colpa. Senza colpa non esiste conflitto. Senza conflitto non esiste distruzione”. E’ il richiamo del sangue che risale dal profondo della propria coscienza. Non ci sono regole. Lo scorrere inesorabile del tempo è sbeffeggiato dal rintocco improvviso di un orologio a cucù. E’ caos organizzato a scandire nuovi possibili rituali voodoo. Dieci minuti scarsi di pura follia. Tiki Fulwood sorvola spiritualmente l’Atlantico e raggiunge i maestri youruba Babatunde Olatunji e Haruna Ishola, mentre Hazel elettrifica il tutto con la consueta scarica adrenalinica.
Per George Clinton e soci il funk diventa una vera e propria religione. Una nuova ideologia sonora. I canoni ritmici del soul più energico assumono nuove traiettorie, impreziosendosi di acidume rock e fulminante psichedelia. L’esibizione dal vivo si trasforma in un rituale esplosivo che riscalda anima e corpo. Un’impressionante carica scenica che genera spettacoli letteralmente fuori dalla norma. La partecipazione è totale e totalizzante. Tutto ruota a meraviglia. Ogni componente segue il proprio sciame funk in una giostra coloratissima di vibranti armonie e caldissime effusioni ritmiche. E’ un susseguirsi di gradevoli piroette soul, improvvise saette hard-rock, con il buon Eddie sempre più nelle vesti del trascinatore supremo ad inanellare assoli che faranno semplicemente epoca (“Super Stupid”), e seducenti andature sbilenche dai tratti disco-funky (“You and Your Folks, Me and My Folks”). L’animo è allegro e felino. I coretti beffardi, le ripetute sovrapposizioni vocali, l’attitudine gospel dei vari Garry Shider, Calvin Simon, Grady Thomas, Ray Davis, e quella voglia di non prendersi mai troppo sul serio nonostante tutto, fungono da carburante essenziale (“Can You Get To That”), mentre le chitarre di Hazel e Ross continuano a intersecarsi a meraviglia con le tastiere luccicanti di Bernie Worrell, in una ripetuta e ostentata danza ipnotica (“Hit It and Quit It”). L’ubriacante e irriverente sfarfallio di “Beck in Our Minds”, unica traccia firmata da Clarence “Fuzzy” Haskins, chiude di fatto la parte centrale del disco, divisa tra le due gemme poste in apertura e chiusura.
Da questo preciso momento in poi i Funkadelic verranno eletti pionieri di uno stile inconfondibile, ponendo le basi per intere generazioni di intrattenitori e hater dalla pelle nera, ma non solo. Le loro spettacolari intuizioni forniranno linfa vitale e preziosa per il movimento black e per i gruppi più disparati, i quali non esiteranno a saccheggiarli alla prima occasione: da Killer Mike a Lil Wayne, da Busta Rhymes ad Ant Banks, passando per Dr. Dre, Snoop Dogg, De La Soul, Eric B. & Rakim, N.W.A, Massive Attack, A Tribe Called Quest e Public Enemy. Lenny Kravitz e Red Hot Chili Peppers devono praticamente tutto a dischi come questo.
Dopo “Maggot Brain” i Funkadelic saranno ancora grandissimi, ma si trasformeranno in qualcos’altro. Il ruolo di Hazel diventerà sempre più marginale fino alla totale assenza in “One Nation Under A Groove” (1978) causata da una condanna a un anno di reclusione comminatagli nel 1976 per aver aggredito un assistente di volo. Si rifarà pubblicando un disco solista nel 1977 (“Games, Dames e Guitar Thangs”) e collaborando lungo tutti gli anni Ottanta in modo più o meno continuativo con Clinton e le sue due band. Morirà il 23 dicembre del 1992 all’età di 42 anni per un’emorragia interna provocata da un’insufficienza epatica. Durante il funerale fu suonata “Maggot Brain”: si era scritto l’elogio funebre con vent’anni di anticipo cogliendo di sorpresa la morte. Ma non noi che con quell’assolo continuiamo a masturbarci, a scopare, a fare l’amore. Come fosse l’ultima volta, ancora una.