Kate Bush “The kick inside” (1978)

Kate Bush “The kick inside” (1978)

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Kate Bush
“The kick inside”, 1978 (Emi)
art-pop, songwriter

di Giuliano Delli Paoli

 

È il 1978 e in Inghilterra è già tempo di fare i conti con la bontà del punk. Le riviste sono piene di elogi e altrettanti dubbi per il fenomeno musicale di certo più discusso e al contempo osannato dalla critica internazionale. I Clash sono rinchiusi ai Wessex Studios, intenti ad allestire la seconda meraviglia della loro carriera a dir poco camaleontica. Johnny Rotten ha lasciato i Sex Pistols ed Elton John è appena tornato alla ribalta dopo aver dichiarato un improbabile ritiro dalla scene. Roger Waters, intanto, comincia a disporre i primi mattoni del Muro, mentre la Lady di ferro è pronta ad accaparrarsi il suo primo mandato.
In tutto questo bel focolaio, Catherine Bush è una tenera ventenne dalle poliedriche abilità strumentali. Suona perfettamente pianoforte, sintetizzatore, violino, basso, chitarra, drum-machine, ama danzare ed è già un’abile coreografa. Niente male per una giovane ragazza giunta sei anni prima dalle fattorie del Kent nel cuore di Londra (precisamente alla scuola di danza e mimo Elephant and Castle) con più di un sogno nel cassetto.
In quegli stessi anni, la giovanissima Kate compone diverse canzoni. Tramite alcuni amici di famiglia riesce poi a inviarle a David Gilmour, il quale resta letteralmente folgorato e decide assieme all’amico Andrew Powell di produrre un demo da spedire subito alla Emi, l’etichetta dei Pink Floyd. È la futura hit “The Man With The Child In Her Eyes”, la quale riesce al primo ascolto a scuotere lo storico responsabile Terry Slater. Poche note e scatta la scintilla. Il boss decide di contattare quel dolce usignolo e finanziarlo gradualmente affinché possa partorire altre perle. Catherine ha soli sedici anni. È ancora una ragazzina, ma ha già la grazia artistica del talento universale, dell’interprete fuori dal comune. Non le resta, dunque, che svuotare un sacco pieno di meraviglie e far incetta di prove per due lunghi anni, cullata e protetta da un notevole gruppo di musicisti (il già citato Andrew Powell degli Henry Cow, David Paton, Ian Bairnson e Stuart Elliott degli Alan Parson Project, l’eccellente sassofonista Alan Skidmore, e il fratello Peddy, con cui ha suonato fin da piccola musica tradizionale inglese e irlandese, alla balalaika, armonica e mandolino). Il tutto controllata quasi a vista da Gilmour, produttore e mentore dell’operazione.
Dopo un’attenta e minuziosa gestazione, “The Kick Inside” arriva finalmente nei negozi. La celebre immagine di Kate Bush con il body rosa invade la capitale inglese. La foto scattata da Gered Mankovitz raggiunge i londinesi mentre l’ugola elfica dalla radio ne rapisce i cuori. L’esordio luminoso e raggiante di quella che diventerà nel corso del tempo una vera e propria icona della pop music, balza ben presto alto in classifica. Solo in Inghilterra si aggiudicherà tre dischi di platino, arrivando ad occupare il terzo posto, mentre in altri paesi divorerà praticamente le prime posizioni per quasi tutto l’anno, inanellando poi sette singoli di successo planetario nei due anni successivi. Cinque copertine diverse a seconda dei mercati (Usa, Giappone, Canada, Sudamerica, Jugoslavia) evidenziano l’indomabilità grafica della stessa Kate.
A giustificare cotanta fama, sono senz’altro diversi fattori combinati miracolosamente dalla dolce e minuta cantautrice britannica. La voce, innanzitutto. Quattro ottave d’estensione e un timbro riconoscibile come pochi in epoca moderna. A tale infinita grazia canora va aggiunta una spiccata propensione melodica, sommata a un’innata versatilità artistica, che le consentono di bypassare i confini della tradizione folk e della musica classica (entrambe fondamentali per la sua formazione) e ragguagliarsi così senza troppa fatica al rock più variegato (Roxy Music, Beatles, Rolling Stones, King Crimson, Steely Dan e Fleetwood Mac sono le sue band preferite).
È il canto di una balena preso in prestito dall’album “Songs Of The Humpback Whale” del Dr. Roger S. Payne a introdurre “Moving”, opening track dell’album. Segue un piano delicatissimo con la Bush a intonare una carezzevole danza ipnotica, interamente dedicata al caro e inarrivabile maestro di mimo Lindsay Kemp. Nel giugno di quell’anno, oltre a spopolare nel Vecchio Continente, diventerà il singolo più venduto in Giappone. La successiva “The Saxophone Song” esalta l’ottimo Skidmore in un progressivo amplesso melodico, a immortalare un amore perduto che nessuno mai potrà carpire. Epica, briosa e struggente, “Strange Phenomena” è l’altro grande successo, con tanto di mantra tibetano (“Om mani padme hum”, tradotto “Salve o Gioiello nel fiore di Loto”) raccomandato in condizioni di sofferenza e dolore. Prodotto come singolo solo per il mercato brasiliano, il brano vanta un irresistibile ritornello, che esalta la capacità della Bush di trasformarsi in una sorta di folletto d’altri tempi, atto a consolare l’anima e la mente attraverso il canto sottile, oltremodo versatile e penetrante, mentre il piano disegna traiettorie fuori dal tempo.
Ben più frizzante ed energica è la goliardica “Kite”, altra traccia memorabile da consegnare ai posteri con Kate a sguazzare birichina tra i consueti alti e bassi. “The Man With The Child In His Eyes” è invece la canzone a cui forse la cantautrice inglese deve praticamente tutto. È grazie al suo incantevole candore melodico che la piccola fiammiferaia è riuscita a far breccia ai piani alti della Emi. Prodotta con l’introduttiva “Moving” nel classico 45 giri, è una tenera dichiarazione d’amore rivolta con venerazione al proprio uomo.
Ma il vero miracolo dell’opera risiede al centro del piatto. L’omaggio alla poetessa e scrittrice Emily Bronte è pressoché totale. “Wuthering Heights” viene in realtà scritta due anni prima, con la Bush rapita dalla riduzione cinematografica del 1970 del celebre romanzo “Cime tempestose” della stessa Bronte, diretto da Robert Fuest. Vengono così ripresi nel testo i sentimenti del personaggio principale dell’opera letteraria, Catherine “Cathy” Earnshaw. È il primo singolo del disco, fortemente voluto come tale dalla stessa Bush, intestarditasi presso gli studi della Emi al momento della sua scelta tra i vari singoli ugualmente estraibili. Memorabili le note al piano in ingresso. Memorabile l’interpretazione alta a enfatizzare lo spirito e memorabile l’assolo di chitarra conclusivo di Ian Bairnson. Su questa canzone cantanti del calibro di Tori Amos hanno costruito un’intera discografia. È di fatto uno dei classici insuperati e insuperabili della storia della popular music.
Dopo tale incanto, il disco procede spedito mantenendo comunque una sua versatilità stilistica. Il basso di “James And The Cold Gun”, pur strizzando l’occhio a “One Of These Days” dei Pink Floyd, ne prende le dovute distanze in struttura e variazione armonica, a conferma di un eclettismo a sé stante. Il tempo pare invece fermarsi nella struggente “Feel It”, interpretata magistralmente al piano. Stesso dicasi delle più allegre e speranzose “Oh To Be In Love” e “Them Heavy People”. Chiude l’intensa title track, con Kate Bush seduta ancora una volta al pianoforte, immersa come una Dea d’altri tempi nei propri ricami interiori.
Seguiranno altri capolavori negli anni successivi, come “Never For Ever” e “Hounds Of Love”, a ribadire l’ineguagliabile talento della cantautrice inglese.

 

 

 

 

ondarock

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