
Kim Fowley
“Oitrageous”, 1968 (Imperial)
psych-rock, garage, avant-rock
di Michele Saran
Per quanto già eccessivo, Fowley sciorina poi l’incubo del “Medley”, il brano-monstre (“mostro” in tutti i sensi) che impazza per 15 minuti nella seconda facciata, uno dei grandi tour de force del rock arcano – e parossistico – di ogni era. Dapprima (“Up”) è un reading da tossico di LSD, su sottofondo di effetti allucinogeni che si addentra in un vuoto misterioso, quasi testando gli strumenti, e dirigendo poi la sarabanda eccitandosi come un indemoniato. Ormai pieno show del cantante, nel secondo movimento “Caught In The Middle” gli strumenti stanno guardinghi in sordina, quasi impauriti, in attesa di un suo ordine; quindi si fanno tonanti per un istante ma subito frantumandosi nelle dissonanze e negli echi elettronici, finché lo showman rimane solo in un’altra dimensione, che lui chiama senza problemi “hell”.
Ma la sua preoccupazione è quella di continuare lo show: la sua forza (“louder”!) fa richiamare gli strumenti, finchè questo smarrito Jim Morrison conduce la sua “The End” a risultati esplosivi di nuove trasfigurazioni, ancora una volta polverizzando il tutto, collassando, ansimando. Quando alla fine chiede alla sua banda una “funeral march” tenta addirittura di divorarsela letteralmente. Alla fine (“Down”) la rivitalizza in abissi psichedelici sempre più fondi e infernali, in un orgasmo a decrescere di schiume di distorsioni, organo piroettante e rifrazioni caotiche di echi ed elettronica. Uno dei momenti più avventurosi e pirotecnici della psichedelia.
Come la “Her Majesty” dei Beatles chiude la suite della seconda facciata di “Abbey Road”, allo stesso modo a questo prodigioso “Medley” segue una piccola traccia, “California Hayride” in cui Fowley dà un’ultima dimostrazione della sua tecnica sfrenata: la sua sola voce, sdoppiata nel suo sé stesso più free e dadaista, di nuovo annientata dai riverberi psichedelici.
Disco che attira e intimorisce come potrebbe attirare e intimorire un intrattenitore invadente, ipercarismatico, una fotografia perfetta – e iperrealistica – del suo spirito apocalittico ma sfinente, tonante ma petulante, imbonitore ma arrogante, spassoso ma ripugnante. Dall’egida di Lenny Bruce e come i grandi showman, i grandi predicatori cialtroni, che si vorrebbe non smettessero e allo stesso tempo non si vede l’ora di toglierseli di torno: appiccicoso e repellente, mette in scena il senso irresistibile dell’orrido e dell’osceno di massa. L’arrangiamento si avvale di aiuti inestimabili (Marty Cerf, lo scrittore del caso, ma anche la chitarra di Mars Bonfire), ma le influenze future sono strabilianti: i grandi frontman creativi, Captain Beefheart su tutti, ma anche l’allievo Jonathan Richman (gli estemporanei Modern Lovers), le Runaways, altra sua creazione diretta; e poi indirettamente Malcom McLaren, il nuovo grande furbone, dio della band estemporanea per eccellenza (Sex Pistols). Un sentore di apocalissi semiseria anche tra le note di copertina (di pugno dello stesso Fowley): “Let’s be born again. Let’s go out of our minds to get back in. We have all died, haven’t we?”. Rimasterizzato e ristampato su vinile 180 grammi nel 2012 (due “hilarious” spot radio come bonus), e compilato nel doppio antologico “Wildfire” (2013), assieme al successivo “Good Clean Fun” (1969).