Stevie Wonder “Talking Book” (1972)

Stevie Wonder “Talking Book” (1972)

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In onda tutte le sere alle 20e15 - 22e15 - 00e15

Ascolta il Disco Base della settimana

1. STEVIE WONDER "You Are the Sunshine of My Life"
2. STEVIE WONDER "Maybe Your Baby"
3. STEVIE WONDER "You And I"
4. STEVIE WONDER "Superstition"
5. STEVIE WONDER "I Believe"

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Nel 1972 Stevie Wonder ha appena ventidue anni, ma è già una star planetaria con una serie impressionati di successi alle spalle. L’ex-bambino prodigio della Motown ha da poco messo le cose in chiaro con i propri mentori, accaparrandosi senza troppe esitazioni le proprie royalty, dando vita così a una forma contrattuale che prevede una totale (e sacrosanta) indipendenza produttiva. I primi frutti di questo nuovo cammino sono gli album “Where I’m Coming From” e “Music Of My Mind”, entrambi rilasciati nel 1971 ed entrambi relativamente pregni di quello che sarà il nuovo sound targato Wonder. Stevie non ha più bisogno di nessuno e al quartier generale di Detroit la faccenda è ormai a una svolta concreta. Ne è cosciente soprattutto il boss della Motown Berry Gordy, il quale aveva posto per tutto il corso degli anni Sessanta più di una guida accanto al giovanissimo talento del Michigan.
Terminata dunque l’adolescenza, per Wonder è giunto il momento di sfruttare appieno la propria onda e di sfogare l’immenso potenziale artistico e l’incredibile bagaglio tecnico (suona tranquillamente pianoforte, chitarra, basso, batteria, percussioni, armonica a bocca) senza badare più a spese e asfissianti coperture stilistiche. La matrice soul diventa, quindi, il punto di partenza da cui modellare nuove cifre, nuovi ritmi, nuove entusiasmanti intuizioni melodiche. Ad ampliare ulteriormente tale evacuazione, è la scelta di arruolare musicisti di enorme spessore. Wonder chiamerà a sé, e tra gli altri, il percussionista Daniel Ben Zebulo, il bassita Scott Edwards, i virtuosi chitarristi Ray Parker, Jr. e Jeff Beck, le coriste Gloria Barley, Jim Gilstrap e Lani Groves , i sassofonisti Trevor Laurence e Dave Sanborne.
Tuttavia, il 1972 non è solo l’anno in cui il cambiamento musicale arriva a una svolta significativa. E’ soprattutto l’anno in cui il rapporto coniugale con l’amatissima Syreeta Wright – co-autrice fino ad allora anche di diversi brani del marito – giunge a un’inaspettata e travolgente conclusione. Wonder ne risente fortemente. Il distacco dalla propria consorte è un fulmine a ciel sereno e il musicista appare quasi stordito. Ma l’ispirazione è ai vertici e il nuovo disco di lì a poco in uscita finirà per assorbire in toto i traballanti umori del nostro, in un coacervo di passioni mai spente e certezze interiori che nessuna distanza potrà mai cancellare (“You are the apple of my eye/ Forever you’ll stay in my heart”).
“Talking Book” arriva nei negozi di tutto il mondo alla stregua di un nuovo messia della black-music che mostra la retta via ai propri seguaci. L’album è una sterzata clamorosa, irripetibile e manifesta un distacco letteralmente siderale dall’eccessiva staticità caratterizzante gran parte della musica soul dell’epoca. In ciascuna delle dieci tracce in esso contenute, Wonder mescola alla ricetta originaria elementi funky, rock, jazzy, r’n’b, palesando una nuova coscienza ritmica capace di trascinare e stimolare le masse come mai nessuno fino a quel preciso momento. L’atmosfera è contraddistinta da un meraviglioso amplesso di bonghi, bassi, tastiere, trovate ed effetti capaci di travolgere anima e corpo. L’idea è quella di stilare un vero e proprio libro parlante attraverso cui il musicista raggiunga e liberi la propria anima (e quella degli ascoltatori) dai demoni interiori. Il tutto mediante l’ausilio di un’armonia dai tratti talvolta estremamente celestiali (l’eterna “I Believe (When I Fall in Love It Will Be Forever)” è l’esempio più fulgido di tale approccio).
A impreziosire cotanto fervore, è la presenza di una religiosità che conforta e appaga, così come insoliti bagliori jazz lasciano il loro inconfondibile segno (vedi soprattutto “Lookin’ For Another Pure Love”, con uno straordinario Jeff Beck alla chitarra solista). Lo sguardo al sociale e al politico è altresì saggiamente manifestato in “Big Brother”, anti-nixoniana quanto basta per consolidare il proprio apporto alla causa anti-bellica in atto in quei travagliati anni.
E’ dunque un Wonder che prova ad allontanarsi con tutta la sua forza dal proprio passato, sia interiormente, sia musicalmente.
La cima di questa straordinaria fuga è raggiunta nella hit mondiale “Superstion”. Il clavinet che segue il ritmo introduttivo della batteria è una combinazione di incastri irripetibili nella storia della musica tutta. E tutto quello che verrà etichettato come disco-music verso la fine dei Settanta deve molto più di qualcosa a questo brano (il fortunato sound dei Bee Gees è solo uno degli innumerevoli rimandi futuri). Una magia che avrà ben pochi uguali nella musica black generalmente intesa come tale e che dominerà le piste di tutto il mondo. Il testo è inoltre una feroce critica alla superstizione, intesa come male da debellare e da cui fuggire a gambe levate.
Ma il disco è inanzitutto un meraviglioso omaggio alla propria spiritualità e ai propri sentimenti. In tal senso, l’andatura carezzevole e cullante di “You Are the Sunshine of My Life” è ancora oggi un esempio perfetto di accecante armonia soulful. Così come le struggenti ballad “You And I” e “Blame It On The Sun” (scritta con l’ex-moglie) diventano in quegli stessi anni il manifesto sonoro di un’intera generazione di amanti. La successiva “Maybe Your Baby” traccia al contempo i primi segni di un’inquietudine scaturita da un abbandono perverso e malvagio (“I’m feeling’ down and some kind of lonely/ Cause’ my baby done left me here /Heart’s blazing like a five alarm fire/ And I don’t even give a care”), mentre il clavinet e il basso si fondono all’unisono dando vita a un palleggio funky stoppato qua e là, prima di cadere nel finale in un vero e proprio delirio emozionale (la celeberrima frase “Maybe your baby done made some other plans” ripetuta con irriverenza e pungente sarcasmo). Al centro del piatto la tastiera liquida e inafferrabile di “You’ve Got It Bad Girl” segnala ancora una volta affronti sentimentali a cui è davvero impossibile resistere (“When you insist on excluding/ The tenderness that’s in my kiss/ Then you’ve got it bad girl, you’ve got it bad girl”).
Con l’avvento di “Talking Book” rivoluzione e orecchiabilità non sono mai state così vicine. Un’opera totalizzante, che continua a fare scuola nella musica nera, e sui cui Wonder poggerà le basi di un glorioso futuro cammino che terminerà poco prima del sopraggiungere dei “terribili” Ottanta, decade in cui comincerà a farsi sentire una certa fiacca. Il suo incredibile successo verrà inoltre celebrato da un colossale tour al fianco dei Rolling Stones. Seguiranno, poi, altri capisaldi, quali il successivo “Innervisions” e (qualche anno dopo) l’osannato “Songs In The Key Of Life”. Dischi che confermeranno l’evoluzione artistica di un talento unico nel suo genere, “emulato” ancora oggi da una nutrita schiera di musicisti palesemente influenzati dallo stile wonderiano (su tutti i bravissimi Jamiroquai di Jason “Jay” Kay).

 

Di Giuliano Delli Paoli

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Oltre a vicepresiedere come si conviene a un vicepresidente, ci guarda dall'alto dei suoi 192 cm. La foto non tragga in inganno.