Una storia, una curiosità, un avvenimento da ricordare
Almanaccando
I suoi killer non scelsero una data a caso. Il giorno del suo onomastico, il 19 marzo del 1994. Mattina prestissimo. Don Peppino stava nella sacrestia della sua parrocchia in Casal di Principe. Si stava preparando per celebrare la prima messa. Non si era ancora vestito con gli abiti talari. Non era immediatamente riconoscibile. “”Chi è don Peppino?””. “”Sono io …””. L’ultima risposta. Cinque colpi rimbombarono nelle navate. Aveva trentasei anni. Dopo la sua morte si tentò in ogni modo di infangarlo. Accuse inverosimili, risibili, per non farne un martire, non diffondere i suoi scritti, non mostrarlo come vittima della camorra ma come un soldato dei clan. Se si muore in terra di camorra l’innocenza è un’ipotesi lontana, l’ultima possibile. Sei colpevole sino a prova contraria. Don Giuseppe Diana lo si potrebbe considerare un morto sul lavoro. Allora tocca chiedersi: “”Che lavora fa don Diana? È un parroco o fa anche dell’altro?””. È un parroco, non c’è dubbio. Ma non fa solo quel lavoro lì. C’è, in quegli anni, una feroce lotta tra due fazioni del clan di camorra. Lo Stato, scusate l’approssimazione, un po’ se ne frega: “”Finché si uccidono tra loro… poi staremo a vedere””. Don Diana invece no. Lui educa alla legalità e non gli va giù nessuna convivenza con la camorra ed il suo sistema di potere, quello invisibile e quello visibile. Lui fa un pezzo di lavoro che dovrebbe essere di altri. C’è una sua predica, letta in tutte le chiese di Casal di Principe il giorno di Natale del 1991, che si intitola “”Per amore del mio popolo non tacerò””. Vale la pena di leggerla per intero. Se volete qui: http://www.caritasitaliana.it/caritasitaliana/allegati/1230/Materiali_donGiuseppe_Diana.pdf
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