Giorgio Gaber “Il signor G” (1970)

Giorgio Gaber “Il signor G” (1970)

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In onda tutte le sere alle 20e15 - 22e15 - 00e15

Ascolta il Disco Base della settimana

1. GIORGIO GABER "Prima Ricorrenza_ Il Siglor G Nasce"
2. GIORGIO GABER "Gioco Dei Bambini_ Io Mi Chiamo G"
3. GIORGIO GABER "Il Signor G Dalla Parte Di Chi"
4. GIORGIO GABER "Com'è Bella La Città"
5. GIORGIO GABER "Seconda Ricorrenza_ Il Signor G Muore"

È il 1970 quando Giorgio Gaber dà alle stampe “Il Signor G”, doppio Lp tratto dalla sua tournée teatrale che proseguirà per l’intero biennio ’70-’71. Un album fondamentale, non solo perché rappresenta di fatto la nascita del teatro-canzone che proprio Gaber fondò assieme all’amico Luperini, quanto perché contiene i primi germi di quel pensiero critico che il grande cantautore milanese espresse da quel momento in poi, con una profonda presa di coscienza, protratta fino ai suoi ultimi giorni. È l’aspra critica verso quel mondo piccolo-borghese contro cui si scaraventerà da qui in avanti con crescente impeto. Un’analisi spietata e lucidissima, mostrata con grande ironia e ispirazione e che trova massima espressione proprio nell’alternarsi di canzoni e monologhi, il teatro-canzone, per l’appunto.
L’album, uno dei primi concept italiani, narra in chiave farsesca le vicende di G, alter ego di Gaber, che si trova ben presto a doversi confrontare con le problematiche derivanti dalla lotta di classe e dalla (non) appartenenza al mondo piccolo-borghese. Una nitida fotografia dell’Italia di quel periodo, che viene dagli anni del boom economico, ma che è al tempo stesso ancora una repubblica giovane e immatura, come dimostreranno di lì a poco gli anni di piombo. La scaletta, come in tutti i successivi lavori di Gaber, è costituita da parti cantate, che alleggeriscono la tensione, e monologhi – in alcuni casi vere e proprie invettive – dai risultati sorprendenti oltre che decisamente innovativi per l’epoca.
Il brano iniziale, “Prologo: Suona chitarra”, lo potremmo definire un ironico inno alle “armi di distrazioni di massa”. Gaber teorizza la necessità di esser giullare per confondere le menti e prolungare l’oblio collettivo: “Devo fare per forza il pagliaccio/ Devo solo fare divertire/ Suona chitarra, falli divertire/ Non farli mai pensare”.
Segue l’inizio vero e proprio del concept, ovvero “Prima ricorrenza: il signor G nasce”, che apre idealmente la storia nella stanza n. 132, dove il piccolo è in fasce e passa di mano in mano (“quanti volti emozionati, quanta gente che mi afferra”), mostrando già però segni di insofferenza di fronte alle banalità e alle blandizie dei presenti: “‘Sarà un uomo assai importante, forte, bello, intelligente’/ Ma sta calmo, che magari poi divento un deficiente!”. E ancora: “Avrei voglia di reagire ma per ora ho troppo sonno”. Già emerge, dunque, il senso di una critica spietata all’ipocrisia e alla falsità della società borghese, sempre pronta a giudicare e a sputare sentenze.
Con la crescita, inizia un processo di confronto e di posizionamento nella società. Impietoso ed esilarante il parallelo tra due bambini di diversa estrazione sociale in “Giuoco di Bambini: io mi chiamo G”, in cui la satira gaberiana mette a nudo lo scontro di classe, centro del dibattito politico di quel momento storico: “a) Il mio papà ha tre lauree e parla perfettamente cinque lingue/ b) Il mio papà ha fatto la terza elementare e parla in dialetto, ma poco perché tartaglia/ a) Io sono figlio unico e vivo in una grande casa con diciotto locali spaziosi/ b) Io vivo in una casa piccola, praticamente un locale, però c’ho diciotto fratelli…”.
Ma lo sguardo lucido e tagliente di Gaber penetra anche in una camera da letto, affrontando, nella tenera ballata “Una storia normale: il Signor G e l’amore”, il progressivo spegnersi della passione, il subentrare della routine nella coppia, l’incomunicabilità (“da tempo non parliamo quasi più”) e quindi “il tradimento piccolo-borghese, la falsità, la commedia, la meschinità”. Anche su un argomento inflazionato come l’amore, il cantautore milanese riesce a spendere parole di feroce lucidità, grazie a una chiave di lettura che richiede certamente un grande coraggio unito a un profondo processo di analisi sociale.
Il protagonista si trova intrappolato negli ingranaggi di una società che gli gira intorno in modo vacuo e ozioso: “Signora Marchesa, latte o limone?/ Son quasi le cinque, è l’ora del tè”, ironizza “Il Signor G dalla parte di chi”, dove il dialogo con il coro rende stridente il contrasto con le aspirazioni di libertà e rivoluzione da parte delle nuove generazioni e dei movimenti, che “solo per il fatto che sono giovani, hanno ragione per forza”. Ma il Signor G, ripiegato ormai nella sua dimensione fisica, individuale, si chiede anche: “Me ne importa poi tanto di queste cose?/ … per la mia vita/ come fatto fisico, avrei voglia di prender su la famiglia, di andarmene un po’ in campagna”.
Il disgusto nei confronti della borghesia e dei suoi squallidi rituali riemerge però nello stupendo tango di “L’orgia, ore 22 secondo canale”, dove il protagonista viene ritratto annoiato “in disparte, per rappresaglia” in quell’assembramento di nudità, mentre l’attenzione generale viene catturata da un film d’amore sul secondo canale, suscitando l’esilarante dialogo conclusivo: “A me piace perché alla fine i due si sposano/ Ah sì, anch’io sono per il lieto fine/ mica come quei film moderni che non si capisce assolutamente niente/ in fondo sono un sentimentale/ Scusi tanto, non ha mica visto le mie mutande?”.
In questo contesto alienante, anche la metropoli diviene una trappola, con la sua frustrante frenesia che sempre più velocemente divora le persone attraverso ritmi esasperati e inumani: è il tema della suggestiva “Com’è bella la città”, sottolineato da un riuscita variazione del ritmo metronomico della canzone. Così l’unica soluzione sembra cercare rifugio e conforto nella natura, ma nella successiva “Il Signor G incontra un albero”, più malinconica e introspettiva, l’impossibile dialogo con l’albero acuisce il senso di desolazione e rassegnazione del protagonista.
È ancora il rapporto di coppia al centro della vivace “Vola vola: Il Signor G e le stagioni”, mentre “Preghiera” è un’amara supplica in favore delle classi sociali più disagiate, ignorate in favore dei “buoni” e dei “vincitori”: sono i vinti, i cattivi, persino i violenti “che non sanno come difendersi in questo nostro mondo”.
C’è un profondo conflitto interiore nel crescendo di “Io credo: autoritratto di G”, combattuto tra fiducia nell’amore e nella bontà e le pronte smentite che il mondo ci fornisce in continuazione. Sarcasticamente G si definisce un self-made man senza nemici, timorato di Dio (“credo alla Santa Provvidenza”) e soddisfatto di sé: “Son sempre stato un uomo moderato/ che sa trovare il buono dov’è/ non ho nemici e sono rispettato/ mi son fatto tutto da me. Ho una posizione, penso anche al domani/ nella mia vita ho sempre lavorato/ sono abbastanza contento di me”.
Dopo “Maria Giovanna” che rappresenta di fatto un inno all’amore, pur nelle sue storpiature prodotte dalla società, il disco si chiude con la morte di G, nella “Seconda Ricorrenza: il signor G muore”, che riprende l’episodio della nascita di G, facendo ritorno nella fatidica stanza n.132, e sfoderando l’ultima, aspra critica alle ipocrisie che non cessano neanche dopo la morte. Dal pastiche di luoghi comuni iniziale (“Sì il cuore, come il suo povero papà / Sembra che dorma… no, non ha sofferto, non se n’è neanche accorto!”) fino alla processione con “questo spreco di lumini, questo coro di bambini/ e quei preti mascherati chissà quanto son costati”. E in questo ultimo carosello di familiari, amici e semplici opportunisti (“c’è anche quello con gli occhiali che sta lì tutto sudato/ l’avrò visto due o tre volte dal quel giorno che son nato”) si compie la lettura del fatidico testamento, recante la sola, beffarda indicazione: “G. saluta la sua gente/ s’è mangiato tutti i soldi, non vi lascia proprio niente”. Un brano che spicca anche musicalmente, con la scelta di una marcia allegra, ritmata, che fa da contraltare al plot.
In ultima analisi, “Il Signor G” risulta un’opera di indiscusso valore per due versi. Da un lato lancia un’aspra e profonda critica alla parte peggiore della borghesia italiana e alle sue mostruosità (al pari di quanto sta facendo in quello stesso periodo, in ambito letterario e giornalistico, Pier Paolo Pasolini). Dal punto di vista puramente artistico, invece, Gaber crea una nuova forma comunicativa che valorizzerà efficacemente da qui in avanti il discorso critico di cui sopra, coniugandola al meglio con il contenuto delle sue idee e raggiungendo eccellenti risultati dato l’inusuale scenario (è pur sempre la registrazione di uno spettacolo teatrale).
“Il Signor G” rappresenta quindi un primo, esaltante tuffo nell’universo gaberiano, ricco di spunti di riflessione e animato da una profonda analisi dell’individuo e della società in cui questi si ritrova a vivere e, spesso, a lottare.

Marco Sagliano, Claudio Fabretti

 

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Oltre a vicepresiedere come si conviene a un vicepresidente, ci guarda dall'alto dei suoi 192 cm. La foto non tragga in inganno.