storie, tradizioni, curiosità, lontane nel tempo
Andar per Mantova 18 Febbraio
E’ tempo ormai, dopo qualche parentesi gonzaghesca, che Andar per Mantova si occupi di santi tradizioni e proverbi locali, prendendo l’occasione del mercoledì delle Ceneri, che, ahimé, prelude ad uno dei periodi più mesti dell’anno, almeno nelle intenzioni dei nostri nonni ed avi. E’ il periodo della Quaresima, che dovrebbe preparare con penitenze ed astinenze i fedeli alla festa di Pasqua. Dico dovrebbe , perché oggi anche questo periodo di sacrifici si è trasformato in un blando e modesto tempo di attesa, ben lontano dai riti e dalle rinunce di una volta. Basta ricordare che, in periodo quaresimale, un tempo non si celebravano matrimoni ed erano banditi tutti i momenti di festa e di piacere, compresi i festeggiamenti a tavola, dove si praticavano abbondantemente digiuno e pasti di magro (abitudini, forse derivate anche dalle scarse risorse economiche di allora). Due i proverbi significativi: “” L’amore di Carnevale muore in Quaresima”” e “”Tutti i cibi di Quaresima fan male a chi abusò di tutti in Carnevale””. Oggi ci occuperemo in particolare di riti lontani e vicini del tempo della Quaresima, a partire da quando valeva un altro bel proverbio: “Quando un poveretto mangia una gallina/ o è ammalato lui o è ammalata la gallina”. Proverbio accompagnato anche, forse poco elegantemente, da “Quarésma e presòn i è fate pr i coiòn”, perfetto per individuare il lungo periodo in cui si faceva davvero penitenza. Preghiere ed altre privazioni – aggiunte alla durezza della vita di qualche decennio fa – rendevano dunque davvero interminabile i quaranta giorni dopo le Ceneri, tanto da giustificare l’espressione, ancor oggi in uso, di “longh cmè la quarèsma” (lungo come la Quaresima), attribuita a persone o situazioni caratterizzate da una lentezza esasperante. Ma vediamo nel dettaglio, aiutati dalle preziose testimonianze di Giovanni Tassoni, alcune usanze quasi dimenticate di quelle “”nere”” quaresime. Un solo pasto al giorno, niente carne e poco vino, preghiere individuali e collettive, secondo la convinzione che :”” Urasiòn dla santa Quaresima/ ch’la dura quaranta dé/: s’ha dsuna ‘l Signur/ a dsunarò anca mé! “”. Inoltre anche alle botteghe era vietato vendere carni o salumi grassi: solo alcuni specifici macellai erano autorizzati a vendere carne per gli ammalati, dietro ricetta medica vistata accuratamente dal parroco! E poi continenza nei rapporti coniugali, banditi i divertimenti, la caccia e gli schiamazzi. C’era però una tregua, il quarto giovedì dopo le Ceneri, a mezza quaresima. Allora ci si sfogava, dopo tante rinunce, e le usanze tradizionali ricordano che quello era il momento di “”rasgar la Vecia””, di segare e di bruciare cioè un fantoccio, coperto di stracci, una strega Vecchia bacucca. Il rogo, le grida e le risate servivano ad esorcizzare frustrazioni, disagi e paure. “”La vecia bacuca/la pesta la suca/ la pesta la sal/ la Vecia dal Carnual””. I falò della Vècia ancora oggi si praticano come feste tradizionali in molti paesi.
Per finire voglio ricordare che a Medole, ancora nella prima metà del secolo scorso, si usava, prima di bruciarla, processare la Vecchia Bacucca, che veniva condannata al rogo e di cui si leggeva il testamento. Il Tassoni ce ne riporta una parte di questo testamento in rima:
“”Lascio le mie sottane di lana
alle signore della Fontana
e quelle di cotone alle donne di Salinone.
Lascio lenzuola e materassi
alle signorine dei sassi,
le federe e i cuscini
alle donne di Ponte Crescini.
Lascio le mie catenelle
alle trentenni ancora zitelle,
gli orecchini e i diamanti
alle giovani spasimanti
e tutti gli altri gioielli
alle ragazze più ribelli.
Lascio i tegami e le padelle
alle donne che si credon belle.
E poi, finalmente, dopo le pene del periodo quaresimale, ci si avvicinava alla Pasqua e ai suoi antichi riti, tanto intensi, ricchi e suggestivi quanto affascinanti. Ma tutto questo va rimandato a una prossima puntata.