Rush “Moving Pictures” (1981)

Rush “Moving Pictures” (1981)

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In onda tutte le sere alle 20e15 - 22e15 - 00e15

Ascolta il Disco Base della settimana

1. RUSH "Tom Sawyer"
2. RUSH "Red Barchetta"
3. RUSH "Limelight"
4. RUSH "The Camera Eye"
5. RUSH "Vital Signs"

È abbastanza usuale considerare le opere di transizione come minori per la carriera di un artista, tanto che solitamente quella che dovrebbe essere una caratteristica neutra finisce col venire utilizzata con tono negativo. Eppure non è raro che l’opera di transizione possieda una varietà di sfumature superiore sia a quelle che la precedono sia a quelle che la seguono: avendo iniziato lo sgombero del vecchio stile, ma non essendo ancora compiutamente assestata nel nuovo, finisce con l’assumere i connotati di entrambi e mostra quindi una completezza difficile da replicare. Eppure la reputazione negativa è dovuta proprio a tali componenti, spesso percepiti come contrastanti o poco amalgamati.
Pubblicato nel febbraio del 1981, “Moving Pictures” è il riconosciuto capolavoro dei Rush. L’album viene da sempre lodato per l’equilibrio, la pulizia sonora, la qualità produttiva, l’immediatezza della melodie, la capacità di dare veste pop alla musica dei Rush senza sminuirne le architetture. Il suo merito più grande è però proprio d’essere un album di transizione. Lo si può infatti ritenere l’ultimo loro disco legato alla mistura di rock progressivo e hard-rock da arena, formula che li rese famosi, oppure il primo della loro fase tecnologica solcata da sonorità new wave e pesanti ingerenze elettroniche.

Se a nessuno piace etichettarlo come lavoro di transizione, perché per l’appunto parrebbe di volerlo sminuire, la realtà è che non si potrebbe invece fare complimento migliore a un disco che, grazie a questa fusione, rappresenta l’intero universo creato dal trio canadese. Un mondo parallelo dove musica e geometria hanno operato in perfetta sintesi per quasi vent’anni, prima di ingolfarsi un po’ e ripetersi oltre il necessario.
Con “Permanent Waves”, l’anno prima, i Rush hanno per la prima volta agguantato la zona alta delle classifiche internazionali. “Moving Pictures” è così il primo album registrato nella condizione di affermate rockstar (se riempivano le arene già da qualche anno, è anche vero che il loro nome non era mai andato all’infuori del circolo degli appassionati prima del leggendario singolo “Spirit Of The Radio”). La tensione non mancò di farsi sentire, quando all’innalzarsi dell’ambizione degli arrangiamenti e della sfida alle nuove tecnologie la band si ritrovò a sforare il tempo a disposizione per le sessioni. Alla fine, comunque, il vinile raggiunse i negozi senza particolari ritardi.

Il successo fu immediato e travolgente: numero 3 in Gb, numero 3 negli Usa, numero 2 in Canada e oltre cinque milioni di copie vendute sul solo mercato anglofono. Pur essendosi tolti molte altre soddisfazioni, i Rush non avrebbero più ottenuto simili riscontri. Un disco del genere è del resto di quelli che segnano un’epoca e fanno sentire la propria eco per decenni.
In cabina di regia, accanto ai tre membri della band, siede il fedele Terry Brown, che li accompagna sin dal 1975. L’ingegnoso produttore è fondamentale sia per superare i limiti tecnici in fase di mixaggio e utilizzo delle nuove tastiere sia per conferire dinamismo al sound, per esempio intervenendo sul posizionamento e sul filtraggio dei microfoni della batteria.

La scaletta si apre con la radiazione metallica del sintetizzatore Oberheim Ob-X e una batteria sincopata oltre l’apparente limite del possibile. Passano cinque secondi prima dell’ingresso vocale di Geddy Lee, con il suo tono femmineo e acuto, ma sono cinque secondi incisi nel granito, una delle introduzioni strumentali più caratteristiche della musica popolare. Una manciata di istanti che basta a “Tom Sawyer” per cambiare il corso dell’immaginario rock.

Sfilano quindi a gran velocità le roboanti schitarrate di Alex Lifeson, un intermezzo strumentale in tempi dispari, colpi di batteria neanche fosse un mitragliatore e una serie di riff ormai classici (su tutti quello di synth a 1′ 33″, una cui variazione porta poi il brano verso il finale).
La maestria strumentale dei Rush è tale che spesso, fra il pubblico non anglofono, si tende a sottovalutare una delle loro componenti più importanti, le parole. Firmati dal batterista Neil Peart, i testi mescolano fantascienza, filosofia, visioni adolescenziali e sfoghi sentimentali, in perfetto equilibrio fra ambizione, profondità e candore (ingenuità, diranno i più perfidi, non fosse che si tratta di un elemento molto spesso salutare per la musica rock).

Peart parte da un poema dell’amico Pye Dubois e ne ottiene un inno all’individualismo, ma ben distante dalla mera ribellione: “Sebbene la sua mente non sia in affitto, non criticarlo come fosse arrogante. Il suo riserbo è una mite difesa, mentre supera i fatti quotidiani”. La persona arriva anzi a definirsi soltanto in rapporto al proprio riflesso negli occhi degli altri: “Il Tom Sawyer di oggi è pazzo di te, e invade lo spazio, ti passa avanti”.

Sono versi che dipingono con accuratezza i sentimenti di Peart e il suo conflitto interiore. Da un lato la necessità di un pensiero indipendente (già affrontata in “Freewill”, da “Permanent Waves”), dall’altro il calore – illusorio o meno che sia – che deriva dal senso di appartenenza (argomento poi sviscerato in “Subdivisions”, da “Signals”).
Il secondo brano è “Red Barchetta”, scenario distopico al contempo ironico e inquietante, ispirato da un racconto di Richard S. Foster, dove utilizzare vecchie automobili è illegale. Il protagonista si ritrova braccato quando decide di guidarne una per fare una scampagnata, ma riesce a tornare sano e salvo a casa. Densi di azione, gli eventi si riflettono perfettamente nella musica, che cambia a getto continuo sia per velocità e andamento sia per sonorità. Lifeson apre e chiude con delicati armonici, per poi alternare riff hard-rock e secchi colpi di chitarra controsterzo di evidente ispirazione new wave. È del resto dichiarata la sua stima nei confronti dei Police.

Influenzato invece da Chris Squire degli Yes, Lee architetta una linea di basso mutante e melodica, mixata in maniera piuttosto vistosa, e vi distende coltri di sintetizzatori nei momenti più rilassati. La melodia vocale, più ariosa che mai, dimostra che la vocazione da arena dei Rush non è stata sopraffatta dalle nuove tendenze, anzi ne è uscita rinvigorita e giovane, proiettata verso il futuro.
“YYZ”, ispirata da un codice udito dalla band nell’aeroporto di Toronto, è uno strumentale in tempi dispari, un rompicapo di incastri ritmici e svolte improvvise. È uno dei rari brani del gruppo in cui Lifeson non contribuisce alla composizione, tuttavia i suoi riff metallici e il suo assolo orientaleggiante lo caratterizzano quanto le coltri sintetiche di Lee e le micro-fratture della batteria di Peart, sempre più spigolosa.

“Limelight”, che potrebbe rappresentare una versione evoluta del power pop, mostra la voce di Lee pulita e malinconica, come a voler contrastare la tensione del testo, che racconta le difficoltà di Peart nella gestione del successo (“In questo improbabile ruolo, male equipaggiato per recitare, con poco tatto, uno deve erigere barriere per rimanere intatto”). Nonostante possa sembrare uno dei pezzi più lineari del disco, è in realtà uno dei più intricati, alternando e sovrapponendo parti in 4/4, 3/4 e 6/8. Rappresenta uno degli apici del mimetismo dei Rush e della loro capacità di far apparire naturali strutture impensabili per la maggior parte delle altre band.

“The Camera Eye”, ad oggi l’ultimo loro brano sopra i dieci minuti di durata, descrive le strade di New York e Londra e le sensazioni che le attraversano, affastellando una moltitudine di temi e divagazioni, con chitarre e sintetizzatori che sfoggiano ricami suggestivi e taglienti assalti. C’è spazio per degli interventi ritmici di chitarra acustica, mentre la sezione elettronica arriva per qualche istante a lambire la musica da videogioco, facendone una delle loro creazioni più ricche a livello timbrico. L’atmosfera è mediamente rarefatta durante le parti cantate, mentre si indurisce nei tratti strumentali.
“Witch Hunt” è l’inno che mette all’indice la paura della diversità, talmente attuale che potrebbe essere stato scritto oggi. “Dicono che ci sono stranieri che ci minacciano, i nostri immigrati e infedeli. Dicono che c’è un’estraneità pericolosa nei nostri cinema e negli scaffali delle nostre librerie. Coloro che sanno cosa sia meglio per noi devono alzarsi e salvarci da noi stessi. Rapidi a giudicare, rapidi nella rabbia, lenti a capire. Ignoranza e pregiudizio e paura camminano mano nella mano”.

Il messaggio viene propulso al passo di marcia, con Lee che si scatena in un tripudio di tastiere e cori elettronici, mentre Peart organizza in sottofondo un lavoro percussivo maniacale, ricorrendo a gong, campane a vento, glockenspiel, conga, cowbell, effetti elettronici, modificando i pezzi della batteria e in alcuni tratti incidendo più volte la stessa linea per poi sovrapporre le diverse versioni.

L’influenza del reggae, che aveva già fatto capolino in “Permanent Waves”, dilaga nella conclusiva “Vital Signs”, che del resto lancia definitivamente lo sguardo al futuro dei Rush e alla loro fase new wave. Un sequencer accompagna in più tratti il brano con un frenetico gorgoglio di sedici note, mentre la drum machine nel ponte che va da 0′ 45″ a 1′ 15″ è in realtà una normale batteria, appositamente settata da Brown per ottenere quel suono plastico e innaturale. Il pensiero dei Rush viene sigillato da Lee, che diafano declama: “Ognuno ha bisogno di una polarità inversa, ognuno ha sentimenti contrastanti sulla (propria?) funzione e sulla forma. Ognuno deve elevarsi dalla norma”.
I tre non sono mai stati particolarmente simpatici ai critici vicini al cantautorato e al rock classico, ma sono venerati come divinità da quelli di radice prog e metal. Ci sono voluti più di quarant’anni prima che la rivista Rolling Stone, nel giugno del 2015, concedesse loro la copertina, incoronandoli come “geek gods”. La loro musica va però ben oltre la rappresentazione di quella categoria: qualunque sensibilità difforme dagli standard ha in realtà qualcosa in comune con i Rush, tre ragazzi di provincia che hanno sognato il successo e, una volta ottenutolo, lo hanno utilizzato per cantare i sentimenti di chi si sente imprigionato dalla stessa realtà che loro hanno saputo evadere.

Ecco perché hanno venduto venticinque milioni di dischi nei soli Stati Uniti, facendo musica più elaborata di chiunque altro abbia raggiunto simili risultati. Perché oltre a essere strumentisti superbi sono stati portatori di un messaggio, di una visione positiva e inclusiva, di cui nel 2016 sembra ancora esserci bisogno.

 

di Federico Romagnoli

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Oltre a vicepresiedere come si conviene a un vicepresidente, ci guarda dall'alto dei suoi 192 cm. La foto non tragga in inganno.