Alberto Radius “America Good-bye” (1979)

Alberto Radius “America Good-bye” (1979)

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In onda tutte le sere alle 20e15 - 22e15 - 00e15

Ascolta il Disco Base della settimana

1. ALBERTO RADIUS "America Good-Bye"
2. ALBERTO RADIUS "Poliziotto"
3. ALBERTO RADIUS "California Bill..."
4. ALBERTO RADIUS "Coccodrilli Bianchi"
5. ALBERTO RADIUS "Patricia"

Dopo le prove generali col battistiano “Che Cosa Sei” (1976), a far finire una volta per tutte Radius nella black list degli artisti non allineati è “Carta Straccia” (1977). Un inno contro il conformismo imperante (così ben rappresentato dal singolo “Nel Ghetto”), lo sdegnato chiamarsi fuori dai meccanismi ideologici di un canovaccio che, in Italia, incasellava a sinistra il cosiddetto autore impegnato, relegando tutto il resto in una generica quanto imprecisata destra. Agli occhi del critico politicizzato, Radius partiva già da una posizione difficile. L’esser stato il chitarrista di Lucio Battisti, silenzioso garante del disimpegno e dunque antitesi della militanza nel periodo caldo del primi anni 70, costituiva di suo un indizio non da poco. Fino a quel momento, a salvarlo dalla definitiva condanna, furono i virtuosismi della Formula 3 (band di cui Alberto fu fondatore), che diede un contributo decisivo allo scintillante movimento prog tricolore, il progetto successivo Il Volo, che in qualche modo ne ricalcava le logiche, e le collaborazioni con Franz Di Cioccio della PFM e con Demetrio Stratos e Giulio Capiozzo degli Area.
Nonostante nel 1979 molte delle dinamiche artistiche e sociali che avevano caratterizzato il decennio stessero scemando in favore di un individualismo più diffuso, Radius trova ancora il modo per far parlare di sé. Gli Stati Uniti visti dagli occhi dei giovani italiani anni 70 assumevano una duplice e dissonante valenza: da un lato il nemico da abbattere (il capitalismo origine di ogni male), dall’altro il grande sogno di libertà dato dall’onda lunga di una controcultura che, dalla fine degli anni Sessanta fino almeno al ’77, non ha mai cessato di produrre stereotipi da esportazione.
C’è però un’altra America che può essere osservata attraverso angolazioni inedite, dal basso, dal di dentro, dall’oltre. Magari con l’occhio dissacrante e l’umbratile disincanto con cui Radius interpreta i testi di due grandi parolieri del pop italiano, i cangianti Daniele Pace e Oscar Avogadro – già responsabili del misfatto di “Nel Ghetto” – che, in quello stesso anno, firmano in coppia i testi della super hit di Loredana Bertè “E la luna bussò”, mentre Avogadro verga quelli di “Vincent Price” per Faust’o (a cui nel 1978 produsse, peraltro, il debut album “Suicidio”).

È grazie a queste premesse che “America Good-bye” si pone come il concept che racconta una nazione perduta e perdente, il velo impietoso che si alza per scoprirne il volto meno spendibile. E questo sin già dalla copertina, che nella prima edizione in vinile – non a caso – reca una maschera di plastica trasparente a stelle e strisce che può essere sollevata, rivelando il viso di Radius tratteggiato a colori sul cartonato. Un attacco in piena regola alle radici del sogno, compiuto con romantico cinismo e una sregolatezza non volta a distruggere o a suggerire i rimedi propri di una certa intellighenzia, ma solo a registrare delle fredde realtà. Scene di vita quotidiana, piccole vicende umane e miti in cui l’America diventa l’occasione per constatare l’ingiustizia, il grigiore e la miseria, ma senza l’aspettativa di avere in tasca alcuna soluzione.
Il cast che partecipa alla lavorazione del disco è numericamente ridotto ma qualitativamente sontuoso con Tullio De Piscopo alla batteria, Julius Farmer al basso, Gigi Tonet ai synth e il maestro Sante Palumbo ad affiancare Radius negli arrangiamenti: tutti numeri uno della sala d’incisione che hanno partecipato a vario titolo alle vicende sonore italiane degli anni 70 e 80.

Dal punto di vista musicale ci si trova di fronte a una singolare commistione tra prog fusion ricondotta alla forma canzone (l’uso del minimoog), e ultimi ritrovati tecnologici (i drum pad Synare utilizzati da De Piscopo, già nel sound di gruppi quali Devo e Yellow Magic Orchestra), mentre il suono è scremato da sovrastrutture, introverso, con bassi rotondi sovente in primo piano ad accompagnare una voce screziata, imbevuta di una rabbia appena sfumata.
Sussurri e impennate, come si conviene a vicende ora malinconiche, ora sarcastiche, ora solipsistiche, aventi come unico collante una distaccata amarezza.

Amarezza che si respira da subito: “America goodbye ti abbiamo visto noi al di là della fessura, America goodbye oggi non mi fai sognare né paura…” e poi via sottotraccia, col bavero alzato fra sospirate invocazioni (“Marilyn dove sei”?) e sarcastiche rassegnazioni (“la bandiera ha stelle a volontà e allora come mai non brilla?”), che convergono in una vibrata apologia dello sconfitto.
“Poliziotto” sembra la prima bozza della sceneggiatura de “Il Cattivo Tenente”, il film diretto da Abel Ferrara nel 1992 che ha come protagonista un memorabile Harvey Keitel. Lo sbirro che, al nome di “Patria, famiglia e Dio”, impone la sua personalissima legge proponendosi di raddrizzare “schiene storte, pervertiti, portoricani, froci e banditi”. Tinte forti di un cliché che vede il poliziotto come il padrone del quartiere, un personaggio corrotto dall’etica deviata: se nell’epilogo del film di Ferrara la morte interviene come il risultato di un estremo ravvedimento, qui è l’incidente di un percorso che non contempla alcun riscatto morale. “California Blll” fra pulsanti bassline e scosse di drum pad, dipinge funkeggiando il quadro idilliaco della terra del sole (“…e cavalcano l’onda, tanto lì non si affonda”), salvo poi riempirlo di un’acuta disillusione (“…e pensare che senz’altro c’è la neve un po’ più in là… e pensare, ma pensare non si può…”), mentre “Il Buffone” – tastiere prog, controcanti black e un registro vocale che vagamente rimanda ai Litfiba che verranno – prima celebra e poi demolisce la leggenda di Muhammad Ali.
“Coccodrilli Bianchi” è la sardonica metafora dei corruttori di una morale legata a doppio filo con l’apparenza da salvare propria dei benpensanti, la stessa che non lascia scampo allo yuppie ante litteram di “Giù”, l’irreprensibile colletto bianco con tanto di segretaria che consuma una vita frustrata e un amore finito nella solitudine di una stanza, la domenica, tra fiumi d’alcol e sigarette. Lati oscuri e solitudine, appunto. Quella di “Patricia”, capolavoro del disco e fra le gemme di una carriera, che “vende amore e beve gin” negli oscuri sobborghi di New York con in tasca il sogno di tornare, un giorno, nel suo Messico. E infine “Las Vegas”, città illusoria per eccellenza e luogo in cui il mito della ricchezza mostra il suo volto posticcio, fra luci sgargianti e samba travisati, infrangendosi sullo scoglio ineluttabile dell’illusione.
“America Good-bye” è anche il disco che inaugura il leggendario Studio Radius, la sala d’incisione che darà alla luce album quali l’omonimo di Alice, “L’Era Del Cinghiale Bianco”, “Patriots” e “La Voce del Padrone” di Franco Battiato, “Energie” di Giuni Russo, “Poco Zucchero” di Faust’o, operazioni che vedranno coinvolto il chitarrista romano in veste di turnista, di arrangiatore, talvolta di co-autore, quando non di produttore (come nei casi di Giuni Russo e di Faust’o), a testimonianza e a suggello di una carriera con pochi eguali e che tuttora prosegue.

 

di Marco Bercella

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Oltre a vicepresiedere come si conviene a un vicepresidente, ci guarda dall'alto dei suoi 192 cm. La foto non tragga in inganno.