La parola «isola» disegna una costellazione di senso che è attraversata da una forte tensione: un’isola è un luogo in mezzo al mare, solitario, difficile da raggiungere o da abitare.
Eppure, allo stesso tempo, ci rivolgiamo con speranza all’immagine di un’isola pensandola come punto di approdo, come un’utopia, come il luogo in cui esiste quello che non possiamo vivere ora. L’isola da luogo inospitale si trasforma così in un’oasi in mezzo al deserto, si rovescia in una promessa concreta di ciò che potrebbe essere la nostra felicità.
Ecco allora che quando pensiamo a un’isola dobbiamo subito passare al plurale: Isole.
È il nostro stesso immaginario a chiedercelo attraverso l’immagine bifronte dell’isola come lontananza o condanna da un lato, e l’isola come ciò che è più proprio o più vicino a noi, dall’altro. Così ogni isola sono almeno due.
Il tema di questa edizione di Diecixdieci – Festival della Fotografia contemporanea di Gonzaga – è dedicato alle Isole, un tema che ci invita a pensare in modo dialettico, a declinare al plurale la parola immagine, a saper riconoscere nelle immagini cecità e visione, perdizione e salvezza.
Le fotografie sono Isole e noi ci approssimiamo a loro di volta in volta, come se fossimo finiti in una strada senza uscita, o come se vedessimo per la prima volta la terra promessa.
Questa è la tensione che caratterizza il nostro rapporto con la fotografia, con le sue immagini e con il suo sguardo.
Da quando la fotografia si è diffusa e si è affermata come uno dei modi principali di guardare le cose e noi stessi, siamo infatti attraversati da un dubbio: il nostro sguardo è potente come non lo è mai stato, o forse abbiamo iniziato a diventare ciechi?
E in fondo, rispetto ai primordi gloriosi della fotografia, se ci pensiamo le immagini sono divenute sempre più in modo integrale merce e spettacolo, al punto che l’immaginazione tende sempre meno a realizzarsi in immagine, e piuttosto assistiamo a come nelle immagini l’immaginazione si scarichi fino ad esaurirsi.
Le immagini – come ogni altra merce – prodotte a flusso continuo, 24/7, ci si offrono come il nulla attraverso cui si logora l’immaginazione e con essa la libertà dell’uomo. L’idea stessa di un cambiamento e di trasformazione tende a depotenziarsi, fino ad esaurirsi sotto forma di immagine.
L’essere umano globale, nell’epoca della ipermedialità, sembra essere destinato a un perenne presente scandito dall’alternarsi seriale e senza senso di produzione e consunzione delle immagini.
Dunque dobbiamo rassegnarci a sopravvivere nell’estasi della comunicazione? O iniziare una guerra alle immagini? Piuttosto il Festival vuole essere un’occasione per tentare di articolare un pensiero che ci permetta di resistere con le immagini fotografiche e ci aiuti a comprendere come lo sguardo fotografico possa aiutarci a vedere concrete isole di salvezza e non solo prigioni senza via di fuga.