Meloni buoni da morire
Un saluto e bentrovati a tutti gli ascoltatori!
Anche se da un punto di vista astronomico mancherebbe ancora qualche giorno, il fatto che la calura faccia appiccicare le mie braccia sulla scrivania nel momento in cui mi appresto a imbastire questo penultimo appuntamento con la rubrica Convivium, non mi dà dubbio alcuno sul fatto che l’estate sia cominciata. E così, un po’ per pigrizia, un po’ per desiderio, mi vien da proporvi una puntata dedicata al melone, un classico della tavola estiva quando non si ha voglia di spignattare.
Si fa presto però a dire melone, solo in Italia se ne coltivano oltre 300 varietà, su un’estensione che supera i 23mila ettari. Togliamo pure dall’equazione le varietà invernali, pur buonissime, e concentriamoci sulla dolcezza dei classici della stagione: quelli di Mantova e Viadana non temono confronti.
Fin da bambini veniamo iniziati ai segreti per scegliere quello giusto da comperare sul banco della frutta: deve essere denso al tatto, avere le estremità un po’ morbide e soprattutto esalare il suo inebriante caratteristico profumo. La realtà è che dopo averne annusati due o tre, tutti ci sembrano uguali e alla fine, come per tutte le cose, andrà a fortuna.
Quanto al suo sposo d’elezione, il prosciutto, c’è l’imbarazzo della scelta. Ma non voglio addentrarmi in questo sentiero, diciamo solo che è meglio evitare quelli più dolci e stare su tipologie toscane o dell’Italia centrale; l’acqua del melone stempererà il sale del prosciutto con efficacia.
L’approccio verso i meloni non è però sempre stato così benevolo nel corso della storia dell’alimentazione. Anzi, per lungo tempo fu oggetto di aspra diffidenza proprio a causa delle caratteristiche che lo rendono così desiderabile nelle giornate di calura estiva.
Nel Medioevo la freschezza e l’acquosità del melone erano valutate negativamente sul piano dietetico. Si pensava che questa sua “frigidità”, comune del resto a molti frutti, minasse il calore naturale dell’organismo e sbilanciasse pericolosamente dalla parte del freddo l’equilibrio degli umori corporei. Tale giudizio, basato sui principi della medicina di Ippocrate e di Galeno, si fondava sulla convinzione che ogni cibo è costituito dalla presenza o meno di ciascuno dei quattro elementi della natura: acqua, aria, fuoco e terra. Il melone era considerato, con la sua ovvia affinità con l’acqua, un cibo umido e freddo in massimo grado.
Per questo motivo i medici consigliavano di mangiarne pochi e possibilmente di evitarli. Qualcuno riteneva anche che i meloni fossero addirittura i più pericolosi tra i frutti. Se proprio si desiderava mangiarne, non mancavano strategie per difendere la salute: la frigidità e l’umidità del melone si poteva temperare con il calore del vino – come fanno ancor oggi in Francia – oppure col prosciutto che, essendo secco, metteva a riparo l’incauto goloso da una morte certa e subitanea. Morte che invece colse, nella notte del 26 luglio 1471, il papa Paolo II.
Fu un colpo apoplettico, che i medici attribuirono a una scorpacciata di meloni fatta la sera precedente. Dopo aver passato la giornata in concistorio, il pontefice cenò tardi, verso le dieci, con tre meloni molto grandi e altre cose “di tristia substantia”. Un’imprudenza alimentare che non passò inosservata ai cronisti dell’epoca, i quali raccontano il fatto sottolineando tutta la diffidenza che in quell’epoca vigeva nei confronti di questo frutto.
Poco importa oggi sapere con precisione la causa della morte di papa Paolo II. Certo è che, anche fossero stati accompagnati da prosciutto e vino per stemperarne la “frigidità”, tre meloni sono davvero troppi prima di mettersi a letto. A volte la “tristia substantia” è anche questione di quantità.
A risentirci la settimana prossima!
@Convivium_RB