Disco Base scelto e commentato da Paolo Bertoli, critico musicale
Ascolta il Disco Base della settimana
1. POOH "L'Anno, Il Posto, L'Ora"
2. POOH "Io E Te Per Altri Giorni"
3. POOH "Lei E Lei"
4. POOH "Infiniti Noi"
5. POOH "Parsifal"
(recensione di hypnosphere boy)
Splendido. Monumentale. Minimalista. Epico. Emozionante come poche opere sanno essere. Suggestivo, evocativo e lirico nei momenti più “semplici” come nei più “impegnativi”. Puro nella sua bellezza già da ora senza tempo.
“Parsifal”, opera quarta dopo l'”Opera Prima”, “Alessandra”, “Un po’ del nostro tempo migliore”, presenta la band rimaneggiata nella formazione: non più Valerio Negrini alla batteria (subentra Stefano D’Orazio), non più Riccardo Fogli nel gruppo, dove aveva un sorta di “leadership” (in realtà tutti sono “frontmen” per l’alternanza al canto e i cori sul modello di certo rock britannico più o meno post-Beatles). Sinceramente (per chi scrive) difficile separare il livello del sentire da un esame più “razionale” del disco in questione. Sicuramente è un’opera estremamente ispirata, finora il più (musicalmente) impegnativo e ambizioso progetto del gruppo di Dody Battaglia, Red Canzian, Roby Facchinetti, Stefano d’Orazio.
Difficile in quanto suona come una sfida, un confronto con la corrente del rock “progressivo” (i leaders mondiali sono i Genesis), genere che nella sua denominazione include già l’idea di “apertura di orizzonti” di “guardare oltre” di “cambiamento” verso forme creative più “avanzate”, etc; ambizioso perché dall’impegno e dalla cura perfezionistica che traspare in tutta l’opera si può inferire che la tensione lirica avvertibile è anche in parte il risultato della speranza di riuscire in tale connubio. Lo dico subito: non ha importanza (secondo il mio parere) stabilire se tale sperimentale tentativo di “internazionalizzazione” in senso stilistico e commerciale e “innovazione” in senso artistico e compositivo sia più o meno riuscita. Perché (sempre a mio parere) al di là del carattere fortemente innovativo di quest’album rispetto ai precedenti c’è qualcosa di più importante, non del tutto traducibile a parole.
I due singoli che fanno da apripista all’album sono già due canzoni di un livello straordinario, (e ciò non sempre accade, in quanto il 45 giri risponde maggiormente all’idea e alla pratica del “lancio” che avviene attraverso un scelta studiata di ciò che è più “semplice” e “diretto” senza tralasciare la qualità). “Io e Te per Altri Giorni”, il primo dei due SP è una canzone orchestrale, ritmata secondo una cadenza narrativa, (cioè come se la sezione ritmica sottolineasse i vari passaggi della storia raccontata e delle emozioni vissute dal narratore) alterna due momenti simili, più “sostenuti” e veloci (quasi come una “fuga” strumentale) che ne racchiudono uno più riflessivo e sospeso: “tu distruggi un uomo che crede solo in sé, tutto questo io lo accetto, non si vive un’altra volta”. Sofferta, a suo modo scabrosa, e realistica, questa canzone, con il suo articolato e complesso arrangiamento e le sue aperture orchestrali suona già come un brano epocale. “Infiniti Noi”, il secondo dei brani tratti da questo album, è invece una canzone (con la C maiuscola) in cui dominano l’ampiezza e la lentezza: melodie dolcissime, un po’ malinconiche, un po’ sognanti un po’ illuminate da un senso di speranza, priva di percussioni, con un’orchestra di 50 elementi, è “solo” una splendida canzone d’amore, quasi un inno, quasi la messa in musica di una “lettera a un’amata infinita”, quasi una tenera ninna nanna consolatoria. Romantica e dolcissima, (“grida se l’amore grida forte, piangi quando sei messa d parte”) sembra suonata e pensata apposta per lasciare fluire le emozioni pure senza altro commento ulteriore. Nell’album è posta quasi al termine. Segue “Dialoghi”, quasi un interludio prima del finale teatrale.
La conclusione e il teorico climax, è appunto affidata alla lunghissima suìte progressive che dà il titolo al (concept-) album, “Parsifal”. Termine più erudito di Percevàl, anche se più noto, è la narrazione per quadri della Leggenda del Sacro Graal, di origine “celtica” (e antichissima). Il tempo narrativo è scandito dagli accordi del pianoforte, sui quali si posano le parole dei vocalists che si alternano, mentre il tempo drammatico del racconto si dilata fino a tendere verso un ideale infinito (eterno cioè atemporale) il che è all’incirca il significato implicito all’idea stessa del progressive (progressione verso il superamento dell’orizzonte, oltre il confine della circonferenza, verso uno spazio e un tempo infiniti e quindi verso la dimensione della classicità atemporale). La lentezza e il carattere ascendente della struttura armonica scandisce i vari passaggi da una scena all’altra faendo di questo brano un’opera nell’opera: il cavaliere alla ricerca del Sacro Graal, simbolicamente interpretabile come la ricerca dell’Assoluto e dell’Immortalità, decide, all’incontro con un’aspetto più “vero” e”vicino” della vita, (la donna amata, e ciò che rappresenta), decide di rinunciare alla sua missione, e di donarsi alla vita e alla sua amata (“le tue armi al sole e alla rugiada hai regalato ormai, sacro non diventerai”) e per tale motivo resterà anche “senza macchia”.
Come tutto sembrerebbe, è la perfetta conclusione epica e al tempo stesso romantica di una narrazione incentrata tutta sul concetto dell’amore posto in contrapposizione con il sacro e l’assoluto, come le due superfici della Terra e del Cielo che però finiscono per incontrarsi. Così è secondo lo schema dell’album, ma non secondo il crescendo emotivo. Perchè il vero, assoluto vertice lirico, epico e romantico si raggiunge proprio lì dove meno l’ascoltatore se lo aspetterebbe, proprio con il brano posto in apertura dell’opera:
“L’anno, il Posto, l’Ora…” è realmente qualcosa che va oltre ogni possibile considerazione, anche oltre le parole che si possono provare a cercare per descrivere l’emozione, pura e sconvolgente che suscita. Si tratta di una canzone, con un un dolce piano e delicati arpeggi di chitarra acustica in apertura, e tuttavia, come se fosse involontariamente avvolta in una grandiosità sinfonica, come se tali note fossero straordinariamente in assonanza con l’anima di chi ascolta, e la musica solo un sottile velo che lascia trasparire tale bellezza. La canzone si suddivide in due parti, la prima più sognante, arcana, quasi onirica, raffigura metaforicamente l’incontro con un amore impossibile, e la vertigine lirica ne è la perfetta trascrizione, anche nelle partiture armoniche (“l’anno il settantatrè il posto il cielo artico, l’ora che senso ha, d’estate è sempre l’alba, l’incontro di ogni giorno con l’immensità credo finisca qua”) i versi, straordinari, si fondono nella musica come un torrente scava la sua vallata nella terra e ne disegna la geografia; il crescendo graduale delle immagini sempre più ardite si avverte nel senso di attesa e sospensione che scorre nel fondo dei suoni: “suoni di vento e d’acqua che fermare vorrei… ma non c’è tempo ormai”, fino alla vetta, corale di tale scalata per immagini, che senza più distinzione tra parole e musica, crea un effetto indescrivibile “e non dite a lei: non lo rivedrai, dite: non si sa, forse tornerà”, sembra realmente di sentire l’urlo di un vento sferzante. Una canzone, apparentemente semplice, un inno grandioso e un racconto parabolico dell’amore sfiorato, della bellezza colta nello spiraglio di un istante e fissata nella mente eterna del vissuto. Non so, tornando alla mia personale considerazione iniziale, quanto sia importante che questo album riesca più o meno nell’ambiziosa meta che si prefigge. Forse, però una parziale “certezza” la si può cogliere tra le righe della seconda parte della memorabile canzone che lo apre, e che racconta di una vita quotidiana in un mondo reale: l’interruzione riporta lo sguardo interiore alle immagini dense d’assoluto del viaggio iniziale: “all’orizzonte là, il sole è un occhio immobile, è notte ma la notte qui d’estate è solo una parola” fino alla conclusione, prima del coro struggente e sferzante come l’aria gelida che spazza i ghiacci eterni “affascinata e stanca la mia anima va verso la libertà”.