Van Der Graaf Generator “The least we can do is wave to...

Van Der Graaf Generator “The least we can do is wave to each other” (1970)

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Scelto e commentato da Gianluigi Castagna, volontario

Ascolta il Disco Base della settimana

1. VAN DER GRAAF GENERATOR "Darkness"
2. VAN DER GRAAF GENERATOR "Refugees"
3. VAN DER GRAAF GENERATOR "White Hammer"
4. VAN DER GRAAF GENERATOR "Whatever Would Robert Have Said?"
5. VAN DER GRAAF GENERATOR "Out of my Book"

discobase-fb-logoI Van Der Graaf Generator sono uno dei gruppi più importanti del progressive-rock sviluppatosi all’inizio dei Settanta, poco famosi ma con uno stile particolare e riconoscibilissimo, dalle tinte tetre, oscure, drammatiche e tremendamente moderne.
Dopo il primo album, “Aerosol Grey Machine”, che può vantare solo qualche canzone melodica come “Afterwards”, i successivi tre, ossia il recensito, “H To He Who Am The Only One” e “Pawn Hearts”, sono i loro tre capolavori, non preferendo nessuno dei tre agli altri in quanto il sound si mantiene pressoché lo stesso e la percentuale di buone canzoni idem. Come tre parti di un’unica opera.
L’inizio di “The Least…” è costituito da un’atmosfera tenebrosa, con un fosco soffio di vento, sul quale si aggiungono prima la batteria, come un leggero ticchettio, poi il piano e infine il cantato, prima sussurrato ma che poi esplode nel ritornello assieme al sax. E’ “Darkness”(con un titolo significativo), splendida apertura “dark”, tutta giocata sulla continua alternanza di tratti “sottovoce”, e altri rumorosi, epici e drammatici, marchiati dal sax straniante di Jackson.
Segue una ballata nostalgica, malinconica e con un’atmosfera che profuma di antico, “Refugees”, aperta da un dolcissimo flauto doppiato dal violino. La voce di Hammil non è più drammatica e cupa come nella prima canzone, ma è diventata romantico-malinconica (precorrendo di trent’anni i vari Coldplay e Travis) e anche il sax, che subentra più tardi, è molto più pacato e melodico. Col procedere del tempo il mood diventa sempre più epico (con il subentrare dei cori di sottofondo, ad esempio), mantenendo però sempre quella dolce tristezza che permea tutta la canzone.
La terza traccia si apre con l’organo di Banton, che ci riporta in tempi lontanissimi. Su questa base si innesta il cantato, in tono epico, che dopo un’inizio lento si scatena violentemente, aiutato da un nervoso riff di chitarra e basso: anche questa canzone, come la prima, è costituita da un continuo avvicendarsi tra le strofe, piane, e il ritornello, movimentato e drammatico; dopo circa sei minuti, quando sembra già finita, si insinuano alcune note suonate da una chitarra distorta che fanno da preludio e annunciano il magnifico assolo di sax, nevrotico e estremamente “noisy”.
La tendenza a utilizzare frequenti cambi di ritmo è ancora più evidente in “Whatever Should Robert Have Said”, in cui le strofe acustiche, lente, si alternano per tutto il brano al movimentatissimo ritornello, in cui il cantato, sempre sottolineato da organo e sax, si fa più istrionico ed epico che mai. “Out Of My Book” invece rappresenta una piccola pausa, un quadretto medievale alla Genesis con flauto, chitarra acustica e il solito organo ad accompagnare il cantato.
La traccia finale, “After the flood”, bellissima ma forse un po’ prolissa (dura 11 minuti…), ripresenta le caratteristiche di tutto l’album: alteranza di quadretti acustici, tratti epico-drammatici e momenti di furore noisy, con diverse partiture di sax e oragano (ad un certo punto troviamo anche un solo di flauto alla Ian Anderson). Una sorta di versione in breve di quel capolavoro che sarà “A Plague Of Lightouse Keepers”, un anno dopo.
Il tutto è dominato ancora una volta dall’eccezionale voce di Hammil con le sue variazioni di tono continue, che imprime l’impronta vera e propria, il marchio VDGG, quel sound drammatico, epico, decadente e malinconico.

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Oltre a vicepresiedere come si conviene a un vicepresidente, ci guarda dall'alto dei suoi 192 cm. La foto non tragga in inganno.