Giorgio Moroder “From here to eternity” (1977)

Giorgio Moroder “From here to eternity” (1977)

Condividi

In onda tutte le sere alle 20e15 - 22e15 - 00e15

Ascolta il Disco Base della settimana

1. GIORGIO MORODER "From Here To Eternity"
2. GIORGIO MORODER "Utopia - Me Giorgio"
3. GIORGIO MORODER "First Hand Experience In Second Hand Love"
4. GIORGIO MORODER "I'm Left, You're Right, She's Gone"
5. GIORGIO MORODER "Too Hot To Handle"

discobase-fb-logoTotalmente autodidatta e privo di formazione musicale, Giorgio Moroder è diventato uno dei grandi architetti della disco-music (e suoi derivati), nonché uno dei compositori italiani più influenti di sempre nella storia del pop.
È una lunga storia, quella di questo artista della Val Gardena, che si è mossa attraverso vari periodi: il primo e forse più importante inizia con il suo trasferimento in Germania, verso la fine degli anni Sessanta. È qui che avvengono i primi approcci con tutti quegli echi musicali, tinti di Kraftwerk e di musica elettronica ancora allo stato embrionale, che stavano gettando le basi del cosiddetto rock dei crauti. È in questo enorme calderone di colori che Moroder, al tempo suonatore di basso, ha il suo primo incontro con uno strano e luccicante oggetto: il sintetizzatore, in quegli anni ancora una roba da elite.
Egli stesso raccontò come andarono i fatti: “Nel 1970 ero a Monaco, e un ingegnere che conoscevo di nome Robbie mi presentò un compositore classico che aveva questo nuovo incredibile strumento. Era una grossa macchina con cavi elettrici dappertutto, ed egli suonò per me una composizione che consisteva nella ripetizione di un tono basso che cambiava ogni mezzo minuto. Quella era la sua composizione! Stava in pratica usando quell’enorme macchina per creare ciò che al tempo veniva definito “musica concreta”. Non c’erano né ritmi né effetti e non era troppo interessante, ma dopo, quando il compositore non era più intorno a noi, Robbie mi prese da una parte e mi disse: ‘Guarda, con questa macchina puoi creare molto più di una semplice nota’. Così si mise al sintetizzatore e mi mostrò un paio di cose, e io pensai: ‘Wow! È fantastico!’ Fui subito affascinato dalle possibilità e dai differenti tipi di suono che era in grado di produrre”.
Ed è proprio da aneddoti come questo che nascono le intuizioni sonore dell’artista, e quindi i suoi lavori futuri. Già il sodalizio tutto seventies tra Moroder e Donna Summer (da lui stesso scoperta), che culminò nella realizzazione di brani storici, segnò un cambiamento fondamentale in un certo genere di musica di quel periodo. Il brano “Love To Love You Baby” (1975) mischiò l’anima soul della Summer con l’electro-pop di Moroder, scatenando l’uso del formato 12 pollici; l’ancor più storico “I Feel Love” (1976) gettò praticamente le basi del synth-pop e della disco-music in generale, in particolare quella in salsa elettronica.
Per questo motivo Moroder deve essere considerato l’iniziatore di un genere, il creatore d’atmosfere divenute ormai familiari. E la sua è stata un’avventura spesso in solitario. La “sua disco”, infatti, non è propriamente figlia del funk, magari lo cattura un po’ alla lontana, ma non guarda né a Curtis Mayfield né a Marvin Gaye, e non va a braccetto con i Bee Gees o gli Earth Wind & Fire. Forse la sua collaborazione con Donna Summer può avvicinarsi alle gesta dell’altra “regina” di quegli anni, Gloria Gaynor, ma già il brano “I Feel Love” getta un muro di separazione tra i due generi. Perché Moroder in quel periodo respirava altri ritmi, fatti di drum machine e di electro-dance. Nella sua testa c’era un immenso e variegato calderone musicale che voleva solamente raggiungere un’armonia generale: i lavori dei Kraftwerk, le voci dei sintetizzatori, le influenze dell’avanguardia europea, ma anche le melodie e i ritmi americani e latini del periodo. Insomma, il nostro eroe cercò di regolare la musica elettronica al punto giusto da mischiare ricerca e fruibilità.
Sono questi gli ingredienti che rendono Moroder un artista epocale, ripreso e idolatrato dai più disparati personaggi, anche a distanza di molti anni da quel periodo (Dj Shadow, Outkast). Dopotutto ci sarà una ragione se perfino i Daft Punk hanno campionato la sua “The Chase” nel loro live al Rex Club di Parigi. Ed è semplicemente questa: che i suoi lavori di fine anni Settanta (“From Here To Eternity” in primis) sono innovativi, tiratissimi ed elettronicamente succulenti.
“From Here To Eternity”, firmato semplicemente come “Giorgio”, dura una trentina di minuti, e corre come un treno dall’inizio alla fine. È composto da otto tracce, otto piccole suite di pop-metallico dai potenti bassi decisi e dalle sorprendenti aperture vocali melodiche.
Fin dalla prima e omonima traccia, gli elementi della sua musica appaiono chiari: una rigorosa struttura 4/4 nella quale, in ogni quarto, abbiamo il medesimo ostinato di bassi che si muove su una nota diversa, per poi ripetersi da capo. Le boccate di synth aprono ad atmosfere di sottofondo decadenti ed evocative, e si alternano con le tastiere acute e squillanti del tema principale. I bassi sono secchi e sordi, e i “clap” dei levare sovrastano i “boom” dei battere. Il tutto viene poi mescolato ad effetti elettronici di riempimento, che si sovrappongono in progressione.
La linea melodica è seguita dalla voce, spesso filtrata elettronicamente, e segue il gioco dei bassi, comportandosi esattamente come fosse uno strumento. Non mancano poi voci femminili di stampo “soul & black” ad accompagnare il ritmo, proprio in stile Donna Summer. Il primo amore, del resto, non si scorda mai.
Così si alternano brani epocali quali “Too Hot To Handle”, in cui si capta l’elemento “latino” della sua musica, a pezzi simil-Kraftwerk quali “Utopia – Me Giorgio”, velocizzato però al punto giusto; dunque le atmosfere decadenti in stile John Foxx ma più potenti di “Lost Angeles” si danno il cambio con il robot-funk di “I’m Left, You’re Right, She’s Gone”; da citare infine la cristallina melodia in progressione di “First Hand Experience in Second Hand Love”, e il suo brano più famoso, tiratissimo, da ballare per ore: appunto “From Here To Eternity”, che si muove malandrino tra le luci brillanti al neon di quegli anni, dal fascino già edonista.
Le melodie dei vari brani acchiappano davvero, l’orecchio ascolta e il piede si muove.
I testi, in rigoroso inglese, sono una semplice formalità: possono accennare ad amori o alla vita notturna, e francamente questo poco ci importa. Nessuno, del resto, vuole fare un paragone tra il nostro Giorgio e Bob Dylan. È piuttosto l’elemento musicale a sorprenderci costantemente: perché le invenzioni di Moroder sono tanto semplici quanto affascinanti, e rimandano già a molto del synth-pop degli Eighties, e in parte alla techno da discoteca di inizio anni Novanta. Di sicuro, un must per tutta la musica elettronica a venire. Non a caso il titolo del disco pare quasi dire: “Ok, tutto inizia qui, ma dannazione se continuerà! Anche per anni e anni, fino… all’eternità!”.
Da ricordare che il Giorgio Moroder di fine anni 70 era molto abile nell’interpretare il suo personaggio: occhiali da sole e baffoni zappiani da pista da ballo. Qualsiasi video dell’epoca lo ritrae in mezzo ai suoi synth, alle sue manopole, immerso in quei famosi cavi elettrici, come ai comandi di una navicella, con intorno ballerine in tute brillanti. Qualcuno ha definito la sua musica disco-trash, altri italo-disco, e questo poco ci importa. Forse avrà un po’ mischiato Klaus Schulze con Tomas Milian, ma è stato sempre un gentiluomo delle sette note. La sua eredità musicale resta enorme. Sia per il lavoro pionieristico degli anni 70, sia per le produzioni successive. Moroder, tra l’altro, ha firmato colonne sonore di film, a loro modo, passati alla storia (“Top Gun”, “Fuga di Mezzanotte”, “Flashdance”, “American Gigolo”, “Scarface”), nonché i temi ufficiali delle Olimpiadi di Los Angeles ’84 e Seul ’88. Un patrimonio da custodire, da qui all’eternità.

Condividi
Oltre a vicepresiedere come si conviene a un vicepresidente, ci guarda dall'alto dei suoi 192 cm. La foto non tragga in inganno.