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Ascolta il Disco Base della settimana
1. SERGIO CAPUTO "Bimba Se Sapessi"
2. SERGIO CAPUTO "Un Sabato Italiano"
3. SERGIO CAPUTO "Mercy Bocu"
4. SERGIO CAPUTO "Week End"
5. SERGIO CAPUTO "Spicchio Di Luna"
In principio fu Mister Fantasy, il pionieristico format televisivo condotto da Carlo Massarini che veicolò l’immaginario giovanile verso la multimedialità musicale. È il 1983 e Sergio Caputo, al netto della falsa partenza di due anni prima avvenuta su quegli stessi schermi con un’accoppiata di brani dai canoni estetici più ordinari (“Hey tu” e la pur swingata “Meglio così”, figlie di un “Q Disc” di 4 pezzi uscito per la Ricordi), diventa un appuntamento fisso del martedì notturno italiano, ritagliandosi per diverse puntate il ruolo di house artist nella factory digitale massariniana.
Art director pubblicitario col vizio delle sette note, una gavetta condotta negli anni 70, a mo’ di passatempo, persino dalle parti del Folkstudio, che si trasforma in qualcosa di più serio anche grazie alle attenzioni di Ernesto Bassignano, il caustico cantautore (poi produttore, giornalista e conduttore radiofonico) che dello storico locale romano era uno dei principali mattatori assieme a Francesco De Gregori e Antonello Venditti, e di Vincenzo Micocci, l’imprescindibile talent scout della scuola cantautorale romana.
All’alba del 1983, la scena musicale italiana era alle prese con l’esplosione dell’italo-disco da un lato, e dall’altro con un’importante fetta di fuoriusciti dagli anni Settanta che, seguendo le tracce di Franco Battiato e dei Krisma, aveva anch’essa orientato le sue attenzioni verso le sonorità elettroniche. Lucio Battisti aveva licenziato sul finire dell’anno precedente il sintetico “E già”, i Matia Bazar si accingevano a presentare “Tango”, mentre andavano per la maggiore i divertissement robotici di Alberto Camerini (“Rockmantico”, 1982), e poi quelli di revivalistici in chiave synth-pop di Ivan Cattaneo (“Bandiera Gialla”, 1983), ma l’elenco potrebbe proseguire.
Il ventinovenne Sergio, anagraficamente non di primo pelo, debutta nel mondo discografico che conta con qualcosa che definire di controtendenza è poco. Elettronica? No grazie, almeno per come la possiamo intendere nella sua comune accezione “futurista”. Niente cantautorato rock, che pure aveva un certo seguito (pensiamo agli storici Edoardo Bennato e a Alberto Radius coi suoi vari progetti, ma anche alle stelle nascenti poi esplose come Vasco Rossi, oppure in seguito cadute nel dimenticatoio, come Scialpi) e neppure attenzioni verso il pop d’alta classifica dei vari Venditti, Berté e Pooh.
In un momento in cui si assiste a una corsa verso tutte le possibili declinazioni di futuro, lo sguardo di Caputo si deposita su altre stagioni, a un tempo che era stato rimosso o comunque relegato all’Italia in bianco e nero di nonni e genitori, fra i 78 giri impolverati di Alberto Rabagliati e del Quartetto Cetra, e fra i colpi di swing di Fred Buscaglione. Questo sebbene il nostro – per certi versi non a torto – abbia sempre preso le distanze da accostamenti che possono valere per la comunanza di matrici (lo swing), ma non per i contenuti proposti. Le sue attenzioni volgono soprattutto altrove, nei recenti pruriti jump blues di Joe Jackson, che nell’81 era uscito con “Jumpin’ Jive” e nelle sofisticatezze jazz-pop degli Steely Dan: e dire che il movimento new cool inglese era ancora di là da venire, prendendo forma proprio nell’anno del nostro sabato italiano, con i primi singoli degli Style Council.
Sarebbe tuttavia semplicistico ridurre “Un sabato italiano” a una mera – per quanto singolare – operazione di recupero del passato, o a una calligrafica riproposizione di modelli stranieri, giacché Caputo ci mette molto del suo: innanzitutto coniando dei motivi che vivrebbero comunque di vita propria, poi vestendoli con un physique du rôle interpretativo invidiabile e per molti versi unico, e infine vergando dei testi in cui convivono un linguaggio amabilmente ricercato e la contagiosa immediatezza che, da sempre, segna le fortune del pop.
In questo contesto prendono forma dieci quadretti, deliziosi e memorabili, in cui la squisita ironia è il velo che preserva le malcelate malinconie di personaggi da commedia all’italiana che si destreggiano fra bevute memorabili, frequentazioni sui generis, amori mai nati o conclusi male, con il leit motiv rappresentato da una solitudine esorcizzata dalle luci del night club, fra orchestre, abiti di lamé e bambole fatali dai capelli biondo platino.
È il “Sabato italiano” della radio che “pugnala con il festival dei fiori”, delle avventure nella “Roma felliniana” vissute come “equilibristi in bilico sul fine settimana”, in cui la “malinconia latente” è mitigata dagli “abissi imperscrutabili” delle donne degli amici; è il mood finto leggero suscitato da un amore finito, ritratto nella passeggiata notturna di “Merci Bocù”, fra uno sguardo alle vetrine dove “c’è un manichino che somiglia a te” che “sfoggia un tailleurino giallo senape”, e la capatina al whisky bar con “l’insegna verde menta” dove ordinare “una Guinness per la prima manche” per persuadersi d’aver già lasciato tutto alle spalle. Poi c’è “Week end”, che suona come un tributo agli Steely Dan di “Gaucho” (con “gli assi del Totip, e i patiti della boxe”, a suggellare un’Italia di strada che ancora esisteva), le telefonate all’amata coi “nervi un po’ in disordine” direttamente dal “Night” dove “l’orchestrina si diverte a massacrare uno standard della dolce Bessie Smith”, il gustoso honky tonk di “Io e Rino”, ovvero la simbiosi di due solitudini un po’ tenere e un po’ cialtrone, oppure la ballata vagamente fuori standard di “Cimici e bromuro”, retaggio di un tempo interminabile trascorso al reparto neuro di un ospedale militare, a combattere la noia e la canicola con sogni a occhi aperti, profumati dello stesso aroma degli affreschi lirici che Roberto Roversi regalò a Lucio Dalla.
Ad aprire e a chiudere l’album, altri due classici della collezione di Caputo (gli altri due del disco potremmo individuarli nell’evergreen che gli dà il titolo, e in “Merci Bocù”), lo swingone “Citrosodina”, che diventerà “Bimba se sapessi” per via di possibili problemi legali con la casa farmaceutica del medicinale (per cui la “citrosodina granulare” di uno dei più begli incipit di sempre diventerà l’improbabile “idrofobina vegetale”, bevuta “per dimenticare il mal di mare viscerale che questo mondo mi dà”), e il must per ogni piano bar che si rispetti “Spicchio di luna”, che riprende con malinconica leggerezza buona parte della sceneggiatura: la sera del sabato che sta sfumando, le luci della città, il musicante retrò che anela un amore forse più immaginato che vissuto.
L’anno seguente Sergio Caputo raddoppia, facendo uscire “Italiani Mambo”, il sequel ideale che accresce e consolida la sua popolarità, con tanto di carrellata sanremese. Pur proseguendo il percorso artistico con forme stilistiche sempre più ricercate, arrivando ad accompagnarsi a stelle del jazz del calibro di Dizzy Gillespie, quella di “Un sabato italiano” è l’intuizione da consegnare agli annali, una delle più originali e indimenticate alchimie prodotte dal pop tricolore. E per festeggiarne il trentennale, Caputo ha deciso di farne uscire un remake, “Un sabato italiano 30” (Alcatraz Moon Italia, 2013), risuonando tutti i brani con un settetto jazz e aggiungendo in scaletta due inediti.