Scelto e commentato da Roberta Marcuccilli, giornalista.
Disco Base in onda tutte le sere alle 20e15 - 22e15 - 00e15
1. AFTERHOURS "Male Di Miele"
2. AFTERHOURS "Rapace"
3. AFTERHOURS "Pelle"
4. AFTERHOURS "Voglio Una Pelle Splendida"
5. AFTERHOURS "Sui Giovani D'Oggi Ci Scatarro Su"
Insieme a Cccp/Csi, Marlene Kuntz e pochi altri, gli Afterhours sono riusciti ad allargare i confini dell’indie-rock italico, permettendo a un certo tipo di sonorità di uscire allo scoperto e di ottenere un significativo riscontro di pubblico, non solo per quanto riguarda i dischi venduti, ma anche, se non soprattutto, per il grandissimo successo live riscosso.
“Hai paura del buio?” è il vertice della loro parabola, nonché uno dei picchi assoluti del rock italiano anni 90.
Come a volte succede, il lavoro nacque in un momento difficile, e quasi paradossale, per la band milanese: gli Afterhours erano attivi dalla fine degli anni 80, ed erano stati una delle promesse più interessanti per il rock italiano indipendente (furono invitati a rappresentare l’Italia al “New Music Seminar” di New York), ma dopo l’uscita dell’ottimo “Germi” e il fallimento della loro etichetta, la “Vox Pop”, il gruppo rimase improvvisamente senza casa discografica. È proprio durante questa fase di stallo che nacquero le diciannove canzoni di “Hai paura del buio?”.
Non era semplice trovare un’etichetta tanto coraggiosa da accettare un lavoro così ambizioso. Alla fine fu la Mescal a scritturare il gruppo, aprendo al quintetto le porte del successo (Manuel Agnelli, leader del gruppo, voce e chitarra; Xabier Iriondo, chitarra; Andrea Viti, basso; Giorgio Prette, batteria; Dario Ciffo, violino).
Se il precedente album aveva messo in chiaro quale fosse lo stile del gruppo (melodia e rumore, cut-up nei testi, sperimentazione pop e ironia), “Hai paura del buio?” mostra un gruppo capace di spaziare tra generi e sonorità disparate (lo stesso Manuel Agnelli lo definì “il Mellon Collie italiano”).
Varietà è quindi la parola d’ordine, ma niente appare dispersivo: il disco è al contrario molto compatto e stimolante; i brani scorrono piacevolmente e non si avverte mai una sensazione di noia o di “già sentito”.
Musicalmente, il punto di partenza non differisce rispetto a “Germi”: un post-grunge duro e incisivo, pieno di distorsioni chitarristiche. È questo il paradigma cui si rifanno brani come la celebre “Male di miele”, considerata la “Smells Like Teen Spirit” italiana, con la sua elettricità adrenalinica e il suo riff feroce, o l’altrettanto rabbiosa “Veleno”.
Ma è indubbio che il sound, rispetto al precedente album, si sia ammorbidito parecchio: sono le ballate a dominare, degne eredi di quella “Dentro Marilyn” che riuscì a stregare anche Mina. Tra le più riuscite, “Rapace”, in cui si alternano rabbia e melodia, la cupa “Pelle”, dove il violino suggerisce atmosfere quasi classicheggianti, e “Voglio una pelle splendida”, dolce ed eterea, con il suo arpeggio di chitarra solo sporadicamente inframezzato dai feedback.
Per contrasto, i momenti più energici prendono la forma di piccole schegge hardcore-punk, come nel caso della devastante “Dea”, di “Lasciami leccare l’adrenalina” e dell’incazzatissima “Sui giovani d’oggi ci scatarro su”.
Forse, però, ciò che conferisce maggior valore all’album sono proprio i brani che rappresentano un unicum (o quasi) nella carriera del gruppo, come la sinfonia barocca per pianoforte e violino di “Come vorrei”, il quadretto acustico di “Simbiosi”, il lungo baccanale di “Punto G”, in cui Xabier Iriondo si sbizzarrisce nell’ideare suoni innovativi e spiazzanti, o le digressioni sperimentali di “Senza finestra”, psichedelica, distorta e oltremodo inquietante, e di “Questo pazzo pazzo mondo di tasse”.
Anche sul piano lirico il disco brilla per varietà di temi affrontati, trovando un comune denominatore nell’idea di un mondo desolato e tenebroso, senza via d’uscita.
I testi di Manuel Agnelli, ispirati palesemente da William Burroughs, tentano di mutuarne gli strumenti facendo ricorso a un ampio uso del cut-up (il metodo di scrittura in cui un testo viene tagliuzzato, anche parola per parola, e ricomposto per crearne uno nuovo). Testi dunque, nella maggior parte dei casi, al limite del nonsense, densi di immagini e di suggestioni. Anche le canzoni d’amore suggellano uno stile di scrittura molto personale: dalla simbologia aggressiva di “Rapace” (“Verrò come un rapace a mutilare lo scorpione dentro nel tuo cuore”), agli espliciti riferimenti sessuali di “Elymania” (“Giocattolo vibrante in te, cola miele che sa di me”), fino a punte di rancore misogino – “Forse non è proprio legale sai ma sei bella vestita di lividi” (“Lasciami leccare l’adrenalina”).
Trapela un sarcasmo livido e sferzante, come in “1.9.9.6.”, dove gli “architetti” del testo non sono altro che “finti alternativi che per sentirsi in pace con la loro coscienza votano l’estrema sinistra, frequentano centri sociali, però le bastonate le fanno prendere agli altri e alla fine si rifugiano nei loro atelier, nei loro appartamenti da quattrocento metri quadrati”, come spiegherà in seguito Agnelli. Finti alternativi che ritornano anche in “Sui giovani d’oggi ci scatarro su” (un nome che è tutto un programma), col suo celebre ritornello “Come pararsi il culo e la coscienza è un vero sballo, sabato in barca a vela lunedì al Leoncavallo”. “Musicista contabile”, invece, si scaglia contro gli artisti che si vendono al mercato (“Yeah, questa è la realtà del musicista contabile, yeah, vola fantasia d’imprenditore volatile”).
Infine, alcuni episodi si rifugiano in un ermetismo spiazzante, come “Senza finestra” (“Può piacermi come sei, ma io non sono come te, grassa e brutta anima, senza finestra”) o “Come vorrei” (“Stricnina, se è una bambina, avrà una vita da cellula impazzita”).
Un album sorprendente, dunque, fondamentale per comprendere l’evoluzione dell’indie-rock made in Italy, di cui rappresenta tuttora uno degli episodi più amati e celebrati.