Iron Maiden
“Seventh son of seventh son”, 1988 (Emi)
Rock-Metal
di Marco Caforio
È lecito inaugurare la recensione di quello che si ritiene uno dei migliori album della storia del metal -e del rock tutto, se è per quello- esprimendo una critica?
Direi proprio di sì, e quindi ecco: ho sempre trovato un peccato che l’unico vero concept mai rilasciato dalla Vergine di Ferro non sia stato sviluppato a dovere sotto il profilo delle lyrics.
Il tema dei poteri sovrannaturali del settimo figlio del settimo figlio, e della battaglia fra bene e male per accaparrarsi i suoi servigi, possedeva infinito potenziale; peccato che i Maiden non abbiano saputo confezionare una storia davvero avvincente, che veicolasse la trama di brano in brano in modo coerente.
Ci si è limitati, piuttosto, a cucire grossolanamente un canovaccio tematico attorno alla figura del protagonista, le cui disavventure risultano quindi slegate tra loro e prive di un collante narrativo credibile.
Peccato.
E con questo dichiaro ufficialmente terminato il capitolo delle lagnanze, posto che sotto ogni altro aspetto “Seventh Son of a Seventh Son” merita la qualifica di capolavoro assoluto e senza tempo.
Parliamo forse del disco che conclude il periodo aureo della compagine britannica, che a partire dal successivo “No Prayer for the Dying” dovrà fare a meno del chitarrista Adrian Smith ed intraprenderà una parabola artistica più sbarazzina e sanguigna, senza tuttavia mantenere i medesimi standard messi in mostra nei primi sette full length.
Nei solchi di quest’album, invece, tutto gira alla perfezione: il surreale ed iconico artwork di Derek Riggs, così come la produzione, a firma Martin Birch, donano la miglior veste possibile ad un sound in miracoloso equilibrio fra heavy metal classico e tentazioni progressive, con tastiere mai così protagoniste eppur mai sovrabbondanti.
L’ispirazione, sia compositiva che esecutiva, è davvero ai massimi livelli lungo l’intera tracklist, tanto che risulta impossibile estrapolare momenti o episodi più significativi di altri. Certo, omettere di citare il leggendario incipit di “Moonchild”, la progressione melodica di “Infinite Dreams” (autentica perla obliata all’interno dell’ormai sconfinato catalogo maideniano), la linea vocale da brividi della galoppante “The Evil That Men Do” o la mastodontica porzione strumentale della title track sarebbe a dir poco irriguardoso.
Al tempo stesso, ogni estratto meriterebbe lodi sperticate; basti pensare, sotto questo profilo, ai pezzi in cui i Nostri decidono di alleggerire i toni e ridurre il tasso di complessità. Penso in primis ai singoli “Can I Play with Madness” e “The Clairvoyant”, le cui irresistibili melodie hanno spesso e volentieri deliziato le platee in occasione degli spettacoli live della band albionica.
Da lì in poi, come detto, qualcosa s’incepperà nei meccanismi degli Iron Maiden, che per chi scrive sono comunque tornati ampiamente in carreggiata da oltre un ventennio (ossia dal rientro in formazione del già citato Adrian e, soprattutto, del cantante Bruce Dickinson).
L’autentico alone di magia che ammanta “Seventh Son of a Seventh Son”, tuttavia, rimarrà irraggiungibile e inarrivabile.