Proposto e commentato da Mirco Bertani, dj e produttore
Ascolta il Disco Base della settimana
1. STEELY DAN "Black Cow"
2. STEELY DAN "Aja"
3. STEELY DAN "Deacon Blues"
4. STEELY DAN "Peg"
5. STEELY DAN "Josie"
Questa coppia di pignoli compulsivi e di stakanovisti dello studio di registrazione ha fatto storia a sè in campo musicale. Pur molto rimasticata, iper perfezionata, super arrangiata e mega prodotta, la loro musica trasuda ugualmente feeling ed emozione, all’istante. I due pazzoidi in questione, Donald Fagen e Walter Becker, raggiungono con il sesto album “Aja” il traguardo della proposta musicale perfetta, seguendo la via più tortuosa e stressante ma a loro confacente: ere geologiche passate in studio a martirizzare se stessi in primis, nonché una lunga serie (più di una trentina, in questo disco!) di musicisti ospiti, tutti con le palle talmente grosse da uscirne vivi dopo aver passato pomeriggi interi su un colpo di rullante, nottate insonni su un suono di chitarra ritmica, mezzi weekend su di un assolo di otto battute.
Essenzialmente musicisti jazz, Fagen e Becker sono riusciti a mettere a punto il loro genere di pop, orecchiabile e ballabile, senza mollare di un metro la specificità e la complicanza del jazz più aristocratico, partendo da esso per giungere ad un ibrido inconfondibile e magico, capace di suonare pop alle orecchie meno attente ed esigenti, funky e rythm&blues alle chiappe più vogliose di muoversi, jazz ai nasi più colti, compresi quelli colla puzza sotto, e perfino rock agli stomaci di quegli appassionati che vanno in cerca di buona musica trascinante, senza badare molto ad agganci culturali e contenuti lirici.
Detto anche della cover, uno scatto raffinatissimo del fotografo Hideki Fujii, degno di cotanta qualità musicale, fra le sette canzoni in scaletta più della metà sono di livello epocale. La mia preferita, e sono in maggioranza perché è quella che vince sempre i referendum fra gli appassionati del gruppo, s’intitola “Deacon Blues”. Difficile descrivere, a chi non l’ha mai ascoltato, la magia e la colta, composta e strepitosa comunicativa di questo lungo e rotolante inno alla sconfitta. La voce di Fagen è urbana ed emozionante più che mai, circondata da tre coriste gospel e da un sax (Pete Chrislieb) che riesce a cantare similmente alla sua voce. ”…They got a name for the winners in the world, I want a name when I lose…”, un ritornello indimenticabile, di una malinconica dolcezza, e dignità, che merita il “blues” del titolo come nessun altro pezzo composto da uomini bianchi. È di quelle canzoni che non stancano, mai.
Posto a chiusura dell’album vi è invece l’archetipo del funky perfetto, “Josie”. Su di un groove galattico costruito da Jim Keltner alla batteria e Chuck Raney al basso, Fagen declama a suo modo una specie di testo d’amore, acre e subdolo. “Tiro” mostruoso per tutto il pezzo, grazie anche alla sonorissima e scampanellante chitarra di Larry Carlton, musica notturna e metropolitana, pensata dai due leader newyorkesi ma fatta eseguire dai migliori musicisti losangelini, per un mix culturale praticamente unico (bisogna aver annusato l’aria delle due megalopoli, così diametralmente diversa, per focalizzarne effettivamente le rispettive sfumature in questo disco).
Altro celebre funky è “Peg”: sul seggiolino dietro ai tamburi stavolta siede Rick Marotta, magnifica macchina del ritmo. Il ritornello gode delle solite incredibili progressioni di accordi escogitate dal duo (suonarsi un qualunque pezzo degli Steely Dan è qualcosa da incubo: concatenazioni senza fine di astrusi accordi di nona, quinta aumentata, undicesima, con i bassi costantemente fuori tonalità…) e viene fortemente caratterizzato dagli interventi vocali di Michael McDonald, un grande cantante oggi dimenticato ma che al tempo in America era considerato il massimo. Leggenda poi vuole che sull’assolo di chitarra si siano alternati ben sette diversi musicisti, per giorni e giorni, prima che gli esigentissimi e maniacali titolari del disco optassero per Jay Graydon. I trenta secondi del suo assolo sono un vero inno all’improvvisazione be-bop, con altissimo contenuto di fantasia melodico/ritmica, apertura mentale, senso armonico: insomma, un gioiello.
“Black Cow” , scelta per aprire l’album, ha la sua componente funky sensibilmente più rilassata ed up-tempo, così come “Home At Last” ed anche “I Got The News”. Su tutte queste composizioni imperversano i testi particolarissimi del duo, farciti di citazioni letterarie, storiche, televisive, sportive, volgari, di modi di dire e di sottintendere prettamente made in USA, godibili al cento per cento solo da un americano (laureato).
Troneggia infine, grazie alla sua dilatata ed ambiziosa struttura, la composizione che intitola l’album, una suite jazz in cui risplendono tante cose, la conduzione vocale di Fagen aiutato dalle mirabili armonie di Tim Schmit (from Eagles, un altro che ha prestato la sua nobile voce a centinaia di dischi), il lavoro armonico e di contrappunto dei due pianoforti (Michael Omartian, acustico, e Joe Sample, elettrico), l’assolo di chitarra di Larry Carlton sopra un tappeto di accordi impossibile, la batteria di Steve Gadd altro gigante del ritmo, alle prese con mille accelerazioni ed acquietamenti prima di esplodere sotto il mitico solo di sax di Wayne Shorter, una faccenda liquidata abbastanza in fretta in studio, come narra un’altra leggenda: Becker chiese al volo a Gadd di suonare come l’inferno (“Play like Hell!”) nelle battute riservate al sax. Detto fatto!
Antipatici, scostanti, fissati ma genialoidi, i due Steely Dan (ancora in piena attività, seppur rarefatta, l’ultimo disco è del 2003) ci hanno lasciato opere piuccheperfette, impossibile non transitare attraverso la loro produzione, di cui “Aja” costituisce riconosciuto vertice, per farsi un’idea precisa sul meglio della musica americana del secolo scorso.
Pier Paolo Farina