Ospite, Marco Guarnieri voce storica di Radio Mantova
Ascolta il Disco Base della settimana
1. STYLE COUNCIL "Blue Cafè"
2. STYLE COUNCIL "The Paris Mach"
3. STYLE COUNCIL "My Ever Changing Moods"
4. STYLE COUNCIL "A Gospel"
5. STYLE COUNCIL "You're The Best Thing"
Ogni volta che scopro una nuova musica, questa mi prende completamente. Voglio scrivere in quello stile, esplorarlo completamente. Non c’è un’ulteriore considerazione, è solo che devo farlo”. Questo dice Paul Weller a Mojo nel maggio del 2010, e osservando il suo curriculum non si può dargli torto: è stato rocker proletario e arrabbiato coi Jam, dandy sofisticato negli Style Council, ma anche l’azzimato cantautore cui gli Oasis si sono rivolti per trovare un padrino al Britpop.
Ancora lui è quello che nel 2010 è saltato fuori con un album intitolato “Wake Up The Nation”, e con la sorprendente collaborazione di Kevin Shields dei My Bloody Valentine.
Tra tutte queste esperienze la più controversa è stata quella con gli Style Council, perché frutto di un clamoroso voltafaccia. Nel 1982 Weller scioglie infatti i Jam giunti all’apice del successo, gettando nello sconforto un pubblico che lo venera come un messia, e fonda un duo col tastierista Mick Talbot (già collaboratore della vecchia band) per mettersi a fare musica soul. Preceduto dal mini “Introducing The Style Council”, il vero manifesto del nuovo corso è “Café Bleu” del 1983, un album che presenta in copertina i due musicisti che si aggirano fra i tavolini di un locale parigino come intellettuali esistenzialisti. E’ un bel salto rispetto al punk e ai locali inglesi dove l’entusiasmo degenera regolarmente in rissa, ma Weller ha capito che il vento sta cambiando, e ha deciso di salvarsi in un luogo di bellezza.
La svolta non è pura follia: Weller, come gran parte dei ragazzi proletari che fanno riferimento alla cultura mod, è cresciuto ascoltando i dischi della Motown e ballando il Northern soul nelle discoteche. Fulminato sul sentiero del punk, non ha lesinato cover e citazioni soul sui dischi dei suoi Jam (in particolare sull’ultimo, “The Gift”). Ma qui non si tratta di ammiccare al canone black degli anni Sessanta, Paul ha sentito “Off The Wall” di Michael Jackson e ha deciso di tuffarsi nella musica nera contemporanea, per un’operazione che ha pochi precedenti: sicuramente “Young Americans” di Bowie (1975) e “Songs To Remember” (1982) degli Scritti Politti, un ex-gruppo post-punk convertitosi alla black music americana. Si tratta di episodi di grande influenza, e dalla pubblicazione di “Café Bleu” in poi Weller si troverà alla testa di un plotone di rappresentanti del new soul inglese.
Basta però ascoltare il manifesto degli Style Council, ovvero la splendida ballata pianistica “My Ever Changing Moods”, con la sua melodia popolare che potrebbe anche essere eseguita da un George Michael, per rendersi conto che nessuno in realtà canta il soul come Paul Weller. Per quanto egli sia rilassato, il suo rimane infatti un timbro graffiante, a volte aspro, che nessun nero userebbe mai. Proprio qui però sta il bello, nella contraddizione di un bianco che fa musica black affermando che i neri negli anni Ottanta sono “gli unici a fare buona musica, come è sempre stato”.
Il nuovo corso soul viene declinato così in tutte le sue accezioni: ballabile col funk elettronico di “Strenght Of Your Nature”, acustico con una “Headstart For Happiness” illuminata dai fiati e una “Here’s The One That Got Away” che suona ancora oggi freschissima, ultra-pop con una “You’re The Best Thing” destinata al successo da classifica. Ci si lancia persino in una tirata rap con “A Gospel”, che del disco è forse l’episodio più coraggioso, ma anche quello invecchiato peggio.
Con la dolcezza cristallina di “The Whole Point Of No Return” si fa largo però una consapevolezza: Weller fa la black a modo suo, e allora se per Bowie si poteva parlare di un “soul dove succede qualcos’altro”, se gli Scritti potevano permettersi di mescolare Michael Jackson e il filosofo Derrida, qui invece si tratta di portare avanti un attacco politico al sistema delle classi inglese. L’operazione era cominciata già coi Jam, però nel 1983 Weller trova che il rock sia troppo ambiguo e compromesso per esprimere quel che c’è da dire, e quindi si cerca un nuovo linguaggio: è in fondo lo stesso atteggiamento già proprio del post-punk, solo che qui il rock non viene modificato radicalmente, ma viene del tutto sostituito.
Dopo “Café Bleu” Weller aderirà al collettivo “Red Wedge” in sostegno ai lavoratori in difficoltà per colpa delle politiche della Thatcher e lancerà bordate ancora più portentose contro il governo con capolavori di soul guerriero come “Walls Come Tumbling Down” e “Internationalists”, sul secondo Lp degli Style Council, “Our Favourite Shop”.
Detto questo, la sublime contraddizione di Café Bleu” è che una buona metà dell’album, fedele alla ispirazione parigina anni Cinquanta della copertina, non è soul ma ci immerge nelle atmosfere fumose di un locale notturno dove si fanno le ore piccole ascoltando il jazz. La splendida chitarra della strumentale “Blue Café” ci introduce in questo clima sofisticato, poi esaltato dall’elegante bebop di “Dropping Bombs On The White House”.
Il riferimento contemporaneo qui è rappresentato dalla scena inglese che gravita intorno a locali di Londra come The Wag e The Mudd e che comprende band come Animal Nightlife ed Everything But The Girl. Proprio questi ultimi vengono invitati a contribuire all’album, in modo che la splendida vocalist Tracy Thorn possa trasformare “The Paris Match” in un’avvolgente torch song, per quello che è senza dubbio il picco del disco insieme a “My Ever Changing Moods”.
L’eleganza della musica si sposa allo stile nel vestire (di cui Weller, da vero mod, è sempre stato campione), la copertina riporta una citazione di Jean Paul Marat e note firmate da Paul con lo pseudonimo “The Cappuccino Kid”: gli Style Council si propongono come i capofila del filone “new cool”, che comprende altri artisti uniti dalla stessa impostazione pop-soul-jazz e da un’attitudine altrettanto “matura” quali Sade, Matt Bianco, Working Week e i suddetti Everything But The Girl.
Talbot e Weller non si limitano dunque a proporre un genere in modo calligrafico, ma presentano un mix affascinante di influenze, senza aver paura di mescolare suoni elettronici e alla moda (i ritmi programmati di “Strenght Of Your Nature”, non troppo lontani dalla dance degli Heaven 17), atmosfere care alla Blue Note, addirittura influenze latine nelle ritmiche (si senta “Me Ship Came In”). Sono inoltre modernissimi nel presentarsi come gruppo aperto e propenso alle collaborazioni. Oltre alla Thorn (che ritroverete nei Novanta a trionfare con “Protection” dei Massive Attack e col tormentone di “Missing”) qui compaiono, infatti, il sassofonista Billy Chapman (negli strumentali jazz), il bassista Chris Bostock dei Jo Boxers (su “Here’s The One That Got Away”) e la vocalist nera D.C. Lee, che poi diventerà moglie di Paul, mentre il batterista Steve White è di fatto il terzo membro del gruppo.
Questa propensione onnivora e sperimentale continuerà per tutti gli anni Ottanta, guadagnando agli Style Council tanti consensi quante perplessità, da parte dei tanti nostalgici del rocker dei Jam, giudicato ormai irriconoscibile. Il culmine verrà con l’episodio clamoroso di “Modernism: A New Decade”, quando i Council tenteranno di lanciarsi nella scia della Chicago house, solo per vedersi rifiutare l’album della casa discografica. In seguito a questa debacle Weller metterà in piedi una carriera solista che invece lo vedrà ritrovare grande successo nei panni di guru del Britpop e della classicità del rock degli anni Sessanta e Settanta, diventando, in una parola, il “Modfather”, autentica istituzione nazionale insieme ai cappelli a bombetta e ai bus a due piani.
Niente più radical chic e di nuovo working class hero, in linea con la mentalità inglese per cui un cantante che è nato povero non può scrivere poesie (Weller ne pubblicava su “December Child”), amare la Francia, Debussy e Satie (cui veniva reso omaggio sul quarto disco degli Style Council), e deve invece bere nei pub e limitarsi alla musica che il pubblico si aspetta da lui.
Paul Weller si è dimostrato un maestro anche in questo, regalando ancora tante buone canzoni e pure qualche sussulto imprevisto, tipo “Wake Up The Nation”, però la sua autentica rivoluzione l’aveva fatta con gli Style Council.