Johnny WInter
“Second Winter”, 1969 (Columbia records)
Rock, Blues
di Antonio Del Mastro
Nato a Beaumont in Texas nel Febbraio del 1944, John Dawson “Winter” III, appare in pubblico a soli 10 anni in uno spettacolo locale suonando l’ukelele, un piccolo cordofono di origine hawaiana. Incuriosito dal blues che ascoltava la loro domestica di famiglia mentre cucinava e puliva in casa, si appassionò fin da subito a quelle sonorità pur consapevole che quella era musica per negri o non per bianchi (infatti lui era affetto da albinismo).
Figlio di genitori entrambi musicisti imparò presto a suonare il banjo ed il pianoforte ma folgorato dai dischi di Muddy Waters e di tutti i grandi bluesman degli anni ‘40 abbracciò presto la chitarra replicando i brani che ascoltava ripetutamente in casa. E nel 1968, al Fillmore East di New York venne invitato sul palco da mostri sacri quali Mike Bloomfield e Al Kooper ( famosa la citazione di Bloomfield sul chitarrista…”this cat can play!” dopo averlo sentito sul palco), facendosi notare da un giornalista che scrisse su di lui l’articolo “ il miglior musicista bianco di blues in circolazione “. Quelle gesta finiranno trentacinque anni dopo – e aggiungo finalmente! – sul bellissimo disco The Lost Concert Tapes 12/13/68 .
Ottenne cosi il primo contratto discografico con la Columbia Records e produsse il suo primo album ufficiale omonimo nel 1969, “Johnny Winter”,legato a sonorità più tradizionali del blues e supportato da Tommy Shannon (futuro Double Trouble) e Willie Dixon. In realtà il suo debutto musicale fù The Progressive Blues Experiment, un piccolo album di classici blues stampato inizialmente in un centinaio di copie dalla casa discografica Sonobeat Record nel 1968 che, successivamente, cedette i diritti alla Imperial Records per stamparne altre copie.
Con la stessa band composta dal bassista Shannon, dall’organista e sassofonista nonchè fratello Edgar Winter e dal batterista Uncle John Turner incide e produce nello stesso anno lo splendido Second Winter, aggiungendo di fatto un nuovo percorso alla strada del rock blues costruita dai Cream e da Hendrix. L’album si presenta subito unico ed originale per la particolarità di essere un doppio vinile con solo tre facciate incise, soluzione scelta volutamente se si leggono le note del booklet dello stesso Winter : “Non potevamo onestamente darvi di più e non volevamo offrirvi di meno…Così qui trovate esattamente ciò che abbiamo fatto a Nashville: né di più né di meno.” Iconica anche la copertina blu con le immagini dell’artista sul palco, sentenziando la carica esplosiva e la propensione ad un suono più hard rispetto al primo disco.
La notevole tecnica chitarristica slide ed una migliore impostazione vocale portano Johnny fuori dagli schemi classici del blues, unendo passione e sentimento ad ogni singolo brano. Composto da undici brani l’album si apre con Memory Pain, un blues con schegge di rock sperimentale per omaggiare l’inossidabile Percy Mayfield. Altra composizione innovativa nella strumentazione invece è I’m Not Sure dove l’artista suona un mandolino elettrico e Edgar fraseggia con l’harpsichord (il nostro clavicembalo). La cavalcata meravigliosa di jazz-blues in Fast Life Rider si discosta da brani più tradizionali e conservatori del genere, come I Love Everybody e Hustled Down In Texas che affondano le radici nel Mississipi. Stesse oscillazioni jazz con elementi di swing li troviamo anche in I Hate Everybody ma non mancano grandi virate verso il rock’n’roll con le energiche cover incendiarie di Johnny B. Goode, Miss Ann e Slippin’ And Slidin’ suonate con brio e vigore dal virtuoso chitarrista senza l’utilizzo del plettro.
Personalmente ho sempre apprezzato i brani The Good Love e Highway 61 Revisited. Il primo perché è un classico esempio di un hard rock non più acerbo che continuerà a farsi strada e completarsi negli anni successivi con giganti del calibro degli Zeppelin, come pure nello stesso ‘69 gli album degli High Tide (Sea Shanties) e dei The Beatles (Abbey Road) tanto per citarne alcuni, contenevano brani dalle sonorità hard-progressive che contribuirono alla nascita del genere. Il secondo, dopo questo rifacimento di Winter, non sarà più il classico di Bob Dylan ma una sorprendente esecuzione slide e cavallo di battaglia in molti suoi live, insomma quasi una tempesta a ciel sereno. Soluzione azzeccatissima !
Second Winter venne inciso quasi tutto in presa diretta per preservarne, diciamo così, una certa freschezza : se il pezzo non veniva terminato in due o tre sedute si passava al successivo. Il trionfo dell’album e la successiva partecipazione al Festival di Woodstock spianerà la strada al musicista nei primi anni settanta come produttore di altre pietre miliari spiccatamente blues e la tanto cercata collaborazione con Muddy Waters ed altri grandi musicisti ( consiglio l’ascolto degli album Johnny Winter And e relativo live omonimo, Guitar Slinger, I’m A Bluesman e il pregevole lavoro Roots). La grandezza di questo album con l’acclamato livello musicale che ne influenzerà le generazioni future viene anche dimostrato dalla volontà di rimasterizzarlo in Legacy Edition del 2004, dove oltre a due inediti vi è un secondo cd contenente un formidabile esibizione alla Royal Albert Hall del 1970, diciamo una istantanea della potenza del chitarrista.
Nonostante gli eccessi della tossicodipendenza negli anni ed i suoi acciacchi non ha mai rifiutato la vita on the road, regalando serate per il pubblico anche senza compensi economici. Deceduto in un albergo di Zurigo nel 2014, ufficialmente per cause sconosciute (sembra sia morto per complicanze da polmonite), Johnny Winter lascia in eredità il power-blues come usava chiamarlo il bassista Tommy Shannon ed un stile musicale unico e anch’esso riconoscibilissimo dalla prima nota, tanto da essere soprannominato il Picasso del Blues…
Buon Ascolto