Talking Heads “Remain in light” (1980)

Talking Heads “Remain in light” (1980)

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In onda tutte le sere alle 20e15 - 22e15 - 00e15

Ascolta il Disco Base della settimana

1. TALKING HEADS "Born Under Punches (The Heat Goes On)"
2. TALKING HEADS "Crosseyed And Painless"
3. TALKING HEADS "The Great Curve"
4. TALKING HEADS "Once In A Lifetime"
5. TALKING HEADS "Houses In Motion"

discobase-fb-logoQuando si mettono in fila quattro dischi straordinari e tesissimi, uno dietro l’altro, quattro colpi a freddo, repentini, spietati, senza abbassare né la guardia né l’intensità e senza accusare cali d’ispirazione, si corre seriamente il rischio di passare alla storia: è il caso dei Talking Heads, che nell’arco di un quadriennio fantastico (’77-’80) licenziarono il memorabile esordio intitolato semplicemente “’77”, seguito dal bruciante “More Songs About Building And Foods” (in cui la mano del produttore-membro aggiunto Brian Eno è già evidentissima), quindi “Fear Of Music” dalle inesorabili traiettorie techno-world e, finalmente, “Remain In Light”, seme e concime del suonare ibrido passato, recente e presente. Quest’ultimo è – soprattutto – un disco magnifico, carne viva, caleidoscopio inossidabile: merita un ennesimo, ammaliante, godurioso ascolto.

La prima impressione è quella di una giungla artificiale, voli radenti di uccelli meccanici, infiorescenze coloratissime tutto intorno, un calore innaturale nella voce di David Byrne, predicatore da un pulpito invisibile: “Born Under Punches” si presenta così, una ritmica pressante e anomala, con il basso a colare gommoso su acide riffate funky. È disturbante, scomodo addirittura, ma siamo già con tutti e due i piedi dentro a questo zoo (post)moderno tanto denso quanto disabitato, dove anche il ritornello sembra perdere le proprie tracce in un circuito inconcludente ed estatico, come un’idea troppo sottile eppure irresistibilmente contagiosa. Martella ostinata anche “Crosseyed And Painless”, rigurgito rock dal riff corposo e dal drumming regolare, tatuato da mille intuizioni sonore (gli svolazzi di una chitarra affilata, una pioggia metallica di tastiere volanti), dall’anarchia irresistibile del basso in libera uscita e dal declamare ora invasato ora freddo ora rappante ora etereo di un Byrne ossuto iconoclasta.

“The Great Curve” complica ulteriormente il panorama con un frenetico strato percussivo schiaffeggiato dall’ectoplasmatica chitarrina funky: il resto è frenesia di cori tribali, inquietudini notturne, insonnie metropolitane, un capolavoro di stratificazioni vocali di cui ancora oggi si fatica a capacitarsi, fiati (sintetici) a rincorrere uno zenit ideale e il surplus di un paio di assolo chitarristici che si macerano tra freddo delirio e folle ironia. Ci risucchia in un vortice di suoni liquidi la celeberrima “Once In A Lifetime”, un primordiale dialogo di basso e batteria sulle cui spinte prima David Byrne declama comunissime idiosincrasie, quindi si abbandona a un ritornello che rotola incontenibile, sostenuto da cori marinareschi e – guarda un po’ – da sferzate funky che spettinerebbero un rinoceronte. Il finale annega in un bagno epico di tastiere acidule: uno degli hit più meritevoli della (grande) storia del rock.

Non poteva proprio mancare tra questi solchi l’onda lunga del reggae, e allora eccola incresparsi come un riflesso schiumoso in “Houses In Motion”, un filamento elettrizzato a percorrerne il sinuoso profilo, noduli disseminati di basso, la casualità improbabile e affascinante di un cinguettio artificiale, la voce che prima contiene poi scatena una rabbia stilizzata, con piccole magie supplementari quali i barriti sulfurei dei fiati di John Hassel. È più pesante il tocco di Brian Eno nell’economia di “Seen And Not Seen”, sorta di scenografia sintetica in cui niente sembra ciò che vorrebbe essere, dove un’accorata melodia sboccia inattesa tra il recitato indolente di Byrne e mille teorie soniche ad assediarci come parabole improvvise di passato, anticipando certe ambientazioni che faranno la felicità (economica) dei Talk Talk più commerciali (periodo “It’s My Life”) e la versatilità ubriacante di Beck.

“Listening Wind” è una ballata ipnotica dalle tracotanti proprietà visionarie: la batteria dal passo raga è perfettamente a suo agio immersa in questa fauna imprecisabile, chitarre e tastiere si intrecciano in una danza dilatata, Byrne canta come dall’interno di un rituale sabbioso, dando vita a un ritornello che sa di vento e distanze spettrali, puntellato da straordinari gorghi di basso, di quelli che promettono di non farsi dimenticare più (infatti i Police non se ne scorderanno imbastendo la peraltro bellissima “Wrapped Around Your Fingers”).

La conclusiva “The Overload” è forse la traccia più sorprendente del programma, con le sue vibrazioni tenebrose alla Joy Division, con il duttile Byrne che sembra evocare la protezione spirituale di Nico e Patti Smith: il risultato è alla fine un’aspra e rarefatta ballata dark, sigillo d’incubo a questo manufatto sfuggente e intenso, il dubbio che ristagna alla fine di un sogno indimenticabile.

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Oltre a vicepresiedere come si conviene a un vicepresidente, ci guarda dall'alto dei suoi 192 cm. La foto non tragga in inganno.