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Ascolta il Disco Base della settimana
1. DAVID BOWIE "Speed Of Live"
2. DAVID BOWIE "Breaking Glass"
3. DAVID BOWIE "What In The World"
4. DAVID BOWIE "Sound And Vision"
5. DAVID BOWIE "Be Me Wife"
Una Mercedes che corre a velocità sfrenata nel garage di un hotel, zigzagando senza sosta tra le macchine parcheggiate. Forse è questa l’immagine emblematica del David Bowie che ha partorito “Low”, suo capolavoro della seconda metà degli anni 70. “Always Crashing In The Same Car”: la metafora di un uomo arrivato al limite, che si ritrova a sbattere sempre contro la stessa macchina. E’ il 1976, e Bowie, che da più di un anno vive a Los Angeles, ha appena dato alle stampe “Station to station”, disco che mescola arditamente elementi soul con il kraut-rock e con le fascinazioni elettroniche di Neu! e Kraftwerk. “Il cannone europeo è qui”, dichiarava nell’epica title track di 10 minuti: Bowie è stanco dell’America, di Los Angeles, che definisce “il bubbone più repellente della feccia dell’umanità”, di una vita di eccessi, di deliri esoterici, di cause legali e disastri familiari. Sente il richiamo dell’Europa, di quella cultura “madre” per molti versi contrapposta a quella americana, che ormai lo stava fagocitando e distruggendo. E lo capisce definitivamente durante il tour promozionale di “Station To Station”, quando insieme all’amico Iggy Pop (anch’egli in un momento critico) si ritrova ad attraversare in treno l’Europa dell’est.
Così, finiti i concerti, si trasferisce con l’assistente Coco Schwab e con Iggy Pop a Berlino, dove vivrà nel semi-anonimato per più di un anno. Nella capitale tedesca, città ricca di contrasti e divisioni (per certi versi un riflesso dell’animo bowiano) e di fermenti culturali, Bowie troverà la forza di sconfiggere i suoi demoni per mezzo della sua unica risorsa: l’arte. Nelle 11 tracce di “Low” l’ex “Thin White Duke” riverserà tormenti e angosce, ma anche voglia di rivalsa, senza comunque interrompere il suo percorso di ricerca musicale, che in questo disco raggiunge una delle vette assolute.
L’album viene registrato nell’autunno del 1976 al Chateau d’Herouville in Francia (in cui Bowie ha da poco terminato “The Idiot” con Iggy Pop) e successivamente mixato agli Hansa Studios di Berlino. Se si pensa che anche “Lodger” del 1979 non è stato registrato nella capitale tedesca, il concetto di “trilogia berlinese” assume un significato diverso, non prettamente geografico, per cui Berlino è piuttosto un topos dove Bowie è riuscito a confrontarsi con se stesso e trovare nuova linfa vitale e artistica. Altra precisazione va fatta riguardo un elemento da molti considerato (forse troppo generosamente) chiave per l’importanza storica assunta dai dischi della trilogia, ovvero la collaborazione di Brian Eno come musicista (e non produttore, come molti a torto ritengono).
Il guru dell’ambient music aveva incontrato Bowie nella primavera del 1976 a Wembley in occasione di uno dei concerti dello “Station To Station” Tour, ed era rimasto folgorato dai connotati che la musica dell’ex “Ziggy Stardust” aveva assunto. D’altro canto lo stesso Bowie aveva cominciato a lavorare già nel 1975 su brani strumentali concepiti per la colonna sonora del film “The Man Who Fell To Earth”, da lui stesso interpretato, utilizzando un approccio compositivo e strumentale affine a quello dei Kraftwerk e di Eno stesso (i brani restarono comunque inediti e furono parzialmente recuperati per “Low”). Non stupisce quindi che due menti del genere abbiano sentito la naturale esigenza di lavorare insieme. Il ruolo di Eno in “Low” è però marginale rispetto agli altri due episodi della trilogia: egli arrivò negli studi di registrazione a sessioni già inoltrate, e contribuì più come supervisore sonoro che come membro fattivo della squadra di Bowie (fatta eccezione per “Warszava”), cominciando a introdurre tecniche compositive che avrebbero trovato espressione nei lavori seguenti (su tutte, l’utilizzo delle “Strategie Oblique”). Un contributo che spesso viene invece sottovalutato è il lavoro del produttore Tony Visconti: a lui si devono, tra l’altro, gli esperimenti sonori delle percussioni attraverso un nuovo tipo di apparecchio, l'”Harmonizer”, che conferisce alla batteria dei timbri assolutamente inediti, con risultati rivoluzionari. “Low” è infatti un disco che si esprime anzitutto coi suoni: la maggior parte dei brani sono strumentali, e nei pezzi cantati i testi sono spesso soltanto piccole pennellate su uno scenario già delineato.
Strutturalmente, c’è una netta divisione tra le due facciate del disco (operazione ripetuta nel successivo “Heroes”) : una più “pop” e votata alla forma canzone, l’altra principalmente strumentale e dilatata. Originariamente il long-playing avrebbe dovuto chiamarsi “New Music: Night And Day”, ricalcando questa dicotomia; la scelta del titolo poi cadde su “Low” per il duplice significato sia di “depressione”, sia per quello che viene fuori associando la parola alla foto di copertina: “Low profile”, basso profilo (che era quello che Bowie intendeva mostrare al pubblico dopo anni di eccessi anche mediatici).
Nella prima parte dell’album le algide atmosfere del kraut si fondono alla passionalità del rhythm and blues (grazie alla consolidata sezione ritmica Alomar-Murray-Davies): “Speed Of Life” suona ancora oggi futuristica (Bowie qui è ai synth), “Breaking Glass” è un funk minaccioso e robotico, “What In The World” ha nel suo ritmo un’urgenza espressiva incontenibile, “Sound And Vision” è disco glaciale, con la sua cascata di sintetizzatori e il ritmo costante della batteria trattata; “Always Crashing In The Same Car” è un folk dylaniano trasfigurato elettronicamente, in cui fa da padrona la fantastica chitarra filtrata di Ricky Gardener, futuro alfiere di Iggy Pop (piccola curiosità : la prima scelta per il chitarrista di “Low” era stata Michael Dinger dei Neu!, che però declinò gentilmente l’offerta), mentre in “Be My Wife” viene fuori il chitarrismo istintivo e rabbioso di Bowie, che scorre nervoso su un tappeto di tastiere. Chiude la facciata “A New Career In A New Town”, strumentale che è manifesto del nuovo corso musicale intrapreso, conciliando tradizione (il semplice motivo di armonica in lontananza) e innovazione (i suoni “freddi” delle macchine).
Le liriche sono uno specchio del travaglio di Bowie: rassegnazione ai limiti dell’apatia (“Always Crashing”), ricordi di una vita domestica turbolenta (“Breaking Glass”), forte bisogno di un sostegno (“Be My Wife”), consapevolezza del difficile percorso intrapreso (“Blue blue electric blue/ that’s the color of my room / where I will live”, “Sound and vision”).
La seconda parte dell’album ha la colonna portante negli oltre sei minuti di “Warszava”, vetta espressiva dell’intero lavoro ed emblematico risultato della perfetta sinergia Bowie-Eno. Il suono ambientale, asettico per definizione, si colora di suggestioni etniche grazie alla voce (trattata con l’Harmonizer) che si libra in un canto senza parole, composto di suoni che rievocano le lingue e le modulazioni balcaniche. E’ il superamento dell’ambient music : la world music (che verrà approfondita in “Lodger”) è dietro l’angolo. “Art Decade” e “Weeping Wall” (quest’ultima risalente alla già citata colonna sonora abortita di “The Man Who Fell To Earth”) ricordano certi episodi di “Another Green World”, filtrati però dalla sensibilità bowiana: il risultato è così molto più tormentato rispetto al lavoro di Eno. Chiude il disco “Subterraneans”, che nella cupezza dei suoni e nella desolata linea di sax esprime perfettamente l’atmosfera della Berlino Est post divisione, dove “ci furono solo i sassofoni jazz a rappresentare il ricordo di ciò che fu” (dalle parole dello stesso Bowie).
“Low” è un disco che ha aperto moltissime porte allo sviluppo del rock: gli anni 80 e la new wave tutta senza questo disco non sarebbero di sicuro stati gli stessi. Bowie riesce a fondere in maniera assolutamente originale cultura europea (kraut-rock, esistenzialismo), cultura afro-americana (rhythm’n’blues) arrivando all’abbattimento definitivo delle barriere transculturali e realizzando al contempo uno dei suoi dischi più veri e profondi. Difficilmente la musica “pop” (nell’accezione più ampia del termine) toccherà livelli così alti di ispirazione e sperimentazione.