Built To Spill
“Perfect from now on”, 1997 (Warner)
alt-rock, psych-folk, avant.rock
di Michele Saran
Doug Martsch, nativo dell’Idaho, nasce e cresce con una mite ma sicura, decisissima passione per la musica. Frequenta scuole di jazz e di armonia, suonicchia con le band locali – la prima di cui si abbia cronaca sono gli State Of Confusion, hardcore di metà anni 80 – e coltiva la passione per la poesia della canzone amatoriale, strimpellata, gracchiante, magari anche attorniata da pedaline e distorsori, eppure gonfia di emozioni. Verso la fine degli 80 forma un gruppo, i Threepeople, in cui compare davvero uno e trino: cantante, una voce particolarissima, anelante e infetta da nevrosi, una chitarra prodigiosa, e un pugno di composizioni (specie quelle del vasto “Guilt, Regret, Embarassment”, debutto del 91) che sperimentano su effetti di chitarra e strati di distorsione. Parallelamente accresce la sua voglia di portare il tutto verso una visione unitaria, che unisca, alla stregua di Dinosaur Jr e del grunge in generale, emozioni melodiche e rabbia cacofonica, un messaggio che arrivi, un po’ suadente e un po’ potente, al cuore della generazione che lui stesso sta vivendo.
Nascono così i Built To Spill, in cui Martsch è affiancato da Brett Nelson al basso (chitarrista nei gloriosi Caustic Resin, e già con Doug nei Farm Days), e da una sezione ritmica scalcagnata ma possente, in grado di condividere le multiformi composizioni del neo-leader. Dapprima “Ultimate Alternative Wavers”, 1993, e quindi un frettoloso “There’s Nothing Wrong With Love”, 1994, sono piccoli classici di una band schizoide, contesa tra ballad elettriche e molli allunghi in forma suite, sempre sferzati da accenti, tremiti, guaiti che ne descrivono tutta una visione frenetica e allucinogena.
Martsch però è soprattutto impaziente di raffinare sempre più quelle idee. Concepisce, nel biennio successivo, una serie di composizioni non più con quest’alternanza tra registri frenetici e pacati, ma ora dotate di un paradigma che li sintetizzi compattamente, e che allo stesso tempo li espanda senza paura di suonare ostico, e persino estenda il suono a componenti alieni. Dal pensiero all’azione, Martsch suona e sovraincide chitarre su chitarre, tastiere e sintetizzatori e persino – ciliegina sulla torta di questo matto sforzo creativo – un violoncello, e si registra svariate volte. Il risultato suona ancora lo-fi, tanto quanto i primi dischi; qualcosa non fila per il verso giusto, queste composizioni sono talmente importanti che anche l’esecuzione deve rendersi solenne.
Al trio di base, Martsch-Nelson-Plouf (terzo cambio di batterista in tre album) si aggiunge così un mellotron (Robert Roth), un violoncello (John MacMahon) e una seconda batteria (Peter Lansdowne), oltre a sintetizzatore, percussioni, pianoforte, tutti compiti ripartiti tra i membri originali. Questa line-up mutata per aggiunte successive avvia dunque le session di “Perfect From Now On” dividendosi in ben tre studi. A tutti appare chiara da subito la caratura dell’opera, qualcosa di rivoluzionario che inghiotte quanto fatto prima, anche dagli stessi singoli musicisti.
Quello di Martsch in “Perfect” è un discorso che ricomincia ogni volta quanti sono i suoi brani, e ogni volta si fa intuire veracemente, desideroso di instillarsi nelle sensazioni più epidermiche dell’ascoltatore, fin dalle primissime battute. Ultime ma non ultime sono le liriche di pugno del leader, in cui ricorre il “leit-motiv” di un “sound” emesso da una non meglio specificata fonte, il “generation sound” divenuto totem da adorare.
L’inizio in sordina, con un tempo sottilmente irregolare, di “Randy Describes Eternity”, prelude a un’esplosione di pulsazioni delle tastiere e d’incisi sinfonici delle chitarre, per orchestrare la messa-annunciazione di Martsch, adulto-ragazzo anelante che si fa strada in un’architettura imperiosa. E’un sublime alternarsi di piano e forte, con pianto lontano del synth, espressionista specie nel crescendo di faville acid-rock del finale. Così “Stop the Show”, in cui il lungo inciso iniziale è altalena lenta e allucinogena dal cello sornione; quindi tutto diventa pura alchimia di rabbia controllata e struggente che aumenta fino a detonare in modo altisonante un’evoluzione che scorre hard-rock, melodia da canzoncina anni 60, raga psichedelico, e persino una chiusa a mo’ di collage sonico.
L’amore mai celato di Martsch per il folk lo-fi acustico troneggia all’inizio di “Made-Up Dreams”, poi mandato letteralmente in orbita dal synth in mezzo ai riff rutilanti, e quindi fatta trascendere da una nenia commovente di mellotron e cello.
Le strutture free-form e asimmetriche del disco sono allo stesso tempo estremamente logiche quasi inevitabili. La spianata corale delle chitarre con cui attacca “I Would Hurt a Fly”, con aromi psych-folk, vapori acidi e sottolineature liriche del cello, rilascia la tensione in una romanza quasi religiosa, fino a una grandiosa jam finale che divora anni e anni di grunge e noise-rock.
L’attacco di “Out of Side” penetra istantaneamente nella memoria: il tutti con cello ed elettronica in bella evidenza detona una cantilena Syd Barrett-iana sfasata e trascendentale, e uno sprint che lo fa diventare un lattice di groove che s’ispessisce e si rarefa. E’ il brano-simbolo di questa perfezione equilibrata di umori e registri, che tutto assorbe e tutto trasforma.
Ogni svolgimento è spettacolare, ieratico e maestoso al contempo: “Velvet Waltz”, come da titolo, è un valzer dimesso delle tre chitarre, un tempo ternario che, a differenza delle altre piece, qui non cambia. Il canto Neil Young-iano del leader subito lo fa diventare giostra psichedelica entusiastica e commossa e poi, in modo subliminale, serenata fatalista e infine vastissima apoteosi ineffabile che, di nuovo, inghiotte l’intera schiera dell’alt-rock, dai Motorpsycho al post-rock.
Ampliando la visione, l’album risolve pienamente il disagio dei 90 in una sorta di ottimistica predica pirotecnica, per quanto ugualmente dura e metafisica. “Untrustable pt. 2” è subito invocazione potente, senza alcuna introduzione, ed è subito “refrain” liberatorio, tra cambi di tempo nel perfetto avvicendarsi delle chitarre; la staffetta drammatica progressivamente si scioglie verso l’ode conclusiva, attorniata da languori estatici incontenibili, con una finissima arte della variazione tutta beethoveniana.
“Kicked in the Sun” non ha la stessa prestanza degli altri poemetti, perciò la chitarra di Martschcoglie l’occasione per diventare impressionista, ampliarsi in vallate, nei luccichii dell’oceano al tramonto, in corse vitali all’aria aperta. L’evoluzione qui risiede spontaneamente nell’intensità dell’esecuzione, da adagio in un’istintiva accelerazione, un anelito che è uno dei picchi drammatici dell’opera.
Una summa nell’intero mondo dell’alterative rock dei 90, la vibrante omelia conclusiva con cui gli anni dell’assordante trambusto giovanile si trasfigurano a nuova espressione, finalmente libera e liberatoria, finalmente senza compromessi, senza autoimposizioni, dogmi, pose. Il vertice incontrastato di un poeta chitarrista, un Martsch qui anche gotha, sublime orchestratore che prende tempi e spazi dello svolgimento dei brani come giuste scansioni e ponderate articolazioni, in cui gli eccessi sono virtù emozionanti, le esagerazioni sono primizie irripetibili. Se suona come riflessione amplissima dal sapore titanico è anche grazie alla sua anima innocente e sempre fertile. Martsch nel 2008 lo portò in giro, ricostituendone meticolosamente la creativa line-up, tra un palco e l’altro (notevole il concerto all’Interzona di Verona in Ottobre), appurandone – tardivamente – la sua grandezza, forse un po’ offuscata dal successivo e ancora strepitoso “Keep It Like a Secret” (1999), opera della consacrazione.
Recensione tratta da Ondarock